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Annamaria
Ferramosca, Porte/Doors
Un libro complesso, multiforme, quello che Annamaria Ferramosca ha pubblicato per le Edizioni Del Leone con il titolo fortemente evocativo di “Porte/Doors”. Un libro in cui si entra a passi lenti, cadenzati, come quando, appunto, si spinge con le dita un uscio socchiuso e ci si trova di fronte un corridoio che racchiude altre porte, di diversa foggia e colore, da aprire una ad una. Ma l’esplorazione dell’edificio poetico si rivela, una volta individuata la chiave - o, almeno, una delle chiavi possibili - fervida, coinvolgente. Il lasciapassare, le parole d’ordine che permettono di superare le varie soglie, viene fatto di individuarle, anche in omaggio alla versione inglese della raccolta, ottimamente realizzata da Anamarìa Crowe Serrano con l’aiuto di Riccardo Duranti, in un autore di area anglosassone, T.S. Eliot. A suggello della sua “Terra desolata”, nella sezione conclusiva, Eliot ricorre, in rapida successione, alle esortazioni rivolte al tuono, alla forza rigeneratrice della pioggia. Give - symphatize - control, dare - simpatizzare - controllare. E’ questa la triade di azioni-sensazioni che Eliot evoca per esorcizzare l’aridità esteriore ed interiore. Saggezza mutuata dalla civiltà orientale, dai libri dell’Upanishad. Parole che, nell’acme della loro carica spirituale, si reificano, si fanno cose, essenza fisica, tangibile, liquido che scorre sulla pelle viva. Dare - simpatizzare - controllare, è questa suggestione di fondo che emerge anche dai versi di questa raccolta. E’ questo che anche l’autrice, con appassionata coerenza, sembra perseguire. Dare, donare, donarsi. Dare se stessa, innanzitutto. Anche nel senso di dare alla vita, sulla pagina, una dimensione nuova, memoria costantemente ricreata. E non è un caso forse che la lirica che apre la raccolta abbia per titolo “Parlare come nascere”. Osserva l’autrice, scruta e analizza con le sue lenti, vetri di microscopio e di cannocchiale, lo sviluppo della materia, l’embrione che si fa corpo, organismo che cresce e si trasforma. Parlare come nascere agli altri, scrive, venire/ alla luce - bianca - dove/ bianchezza è l’universo offerto dalle note. Dare, donarsi, rivelarsi fino a farsi trasparente agli occhi di una luce che cade dall’alto, essa stessa bianca, nuda. Parlare come/ vivere con-dividere, questo è ciò che cerca, limando il linguaggio con perizia fino a rendere anch’esso translucido, cangiante, in ugual misura limpido e velato da un alone che sfuma i contorni e sposta le traiettorie verso nuovi punti cardinali, nuovi sogni, nuove verità. Ritmi segreti di qualche dio dei simboli, costantemente offerti e indicati al lettore quale obiettivo e risultato della ricerca. Il luogo dove la voce sarà oltremusica, è lì che veniamo condotti, per poi venire avvisati, con sguardo complice, che l’oltremusica in realtà era già presente, ci era già stata data fin dall’inizio, dai primi versi, da quel senso di attesa per qualcosa che è già accaduto, già percorso, già assimilato. Un donarsi, quello dei versi di questa raccolta, che rivela passo passo qualcosa di sobrio e prezioso. Prezioso in quanto raro, in particolar modo per un poeta: il pudore. Pudore sincero, niente affatto posticcio o di maniera. Pudore nutrito dalla consapevolezza, dalla cura con cui parole e stati d’animo vengono soppesati, stretti con dolcezza tra mani serrate a pugno. Vagliati con il rigore di chi rifugge gli eccessi fini a se stessi, gli effetti speciali che brillano un istante e subito si spengono. L’autrice cerca, al contrario, la parola scabra, erosa fino alla radice, le venature più sottili, i gangli, le terminazioni che fanno scattare come molle gli impulsi. I corti circuiti, a volte dolorosi a volte grandiosi di istanti di illuminazione in cui la realtà esplode per poi tornare se stessa, rigorosamente se stessa. Anche se, a ben guardare, più sapida, intensa. Dare e simpatizzare. Cogliere il sentire del mondo e condividerlo. Dare e prendere, rubare per poi restituire. Simpatizzare, diventare la materia descritta, ciò che si addita, ciò che si racconta. Divenire, come nella lirica “Eclissi lunare”, la minuscola ghianda che si decompone in un bosco e la formula di Einstein che dà misura all’universo. Simpatizzare, nel senso di conciliare. Così come l’autrice accosta con naturalezza sentimento e pensiero, brivido indefinito e rigore della scienza. Attinge dalla chimica, dalla medicina, dalla fisica, arricchendo la propria gamma espressiva con solide fondamenta che non risultano però grevi o ingombranti. La fusione tra immagini e metafore di opposta natura non è, in questi versi, asettica. Scorre a sua volta in un fluido avvolgente: un pensiero nitido, alieno al caos e tuttavia fertile. C’è, all’interno delle Porte di Annamaria Ferramosca, la capacità della parola di simpatizzare con se stessa, nel gioco, a volte ironico a volte lacerante, dello svelarsi e del camuffarsi. Volano, le parole, come ali multicolori che l’autrice disegna e rincorre. Sorride, con il lettore, ad ogni nuovo riflesso, ogni scherzo improvviso della luce. Sorride, mischiando la gioia e la ferita, la presa di coscienza, la sintonia con il respiro del tempo. Miscela note cupe e lievi così come crea, nel suo personale pentagramma, nuovi accordi tra le parole. Se non basta un solo vocabolo per abbracciare un cielo notturno, si può far spuntare nel foglio, nell’orizzonte del verso, una lunadiboscolunadisavana, accompagnata, nel modo più consono, da una musicanerabianca. Dare, simpatizzare e controllare. Porre confine e misura anche al turbine dell’animo. Senza per altro renderlo meno violento, meno vero. Solo, con coraggio e lucidità, farlo più scabro, più essenziale, per scrutare un istante all’interno, nell’occhio accecante del fulmine, nel gorgo paralizzante della tempesta. E’ questo che le liriche di questo libro inseguono: il brivido che si vela di sferzante e a volte estatico stupore. Uno sguardo che avvicina la poesia alle discipline cosiddette esatte, e queste ultime, in qualche modo, all’emozione. Lo sberleffo di Albert Einstein che fa il verso all’incomprensibile rendendolo meno distante, meno aggressivo. Ma anche la risata di una Margherita Hack. Estremamente preparata, padrona della tecnica e della materia, e tuttavia capace di umanizzare gli arcani legami dei corpi stellari. Come accade, in maniera per certi aspetti simile, nella poesia “E mentre esci dal bar”, basata su una rigorosa struttura binaria, una voce ed un controcanto che si uniscono alla fine in una simmetrica armonia. Il metodo si sposa all’invenzione, le formule acquistano uno spirito. Allo stesso modo in cui la sofferenza, a volte, si infrange contro la barriera di una sana risata. Pensare alla parola/ pensare alla sua cura, esordisce così la seconda strofa della lirica appena citata. E “cura” appare più che mai vocabolo polisemo. Cura come studio, attenzione, applicazione cosciente. Ma cura anche come rimedio, ricerca di salute, di risanamento. Cura, infine, come affetto, attaccamento, passione, ancora una volta. Ad ogni volo delle ali di farfalla Annamaria Ferramosca pone una base, un punto di osservazione e di appoggio. All’etereo verso dal cuore spicco i semi al girasole fa seguito, nella lirica “Ti ho disegnato un seggio”, l’annotazione secca, quasi da manuale di anatomia patologica, anche tu in midriasi pupillare/ parola ti dilata. Il contrasto, benché secco, è funzionale, armonizzato. Tecnica cosciente dunque, ma altrettanto cosciente abbandono alle più libere variazioni sul tema. E ricerca ininterrotta, anche attraverso questa ambivalenza, di dialogo, di complicità. Come nella lirica “Ai poeti”, una delle più sentite, accesa dalla voglia di definire senza retorica né piagnucolosa malinconia l’identità comune di chi da minime distanze [cerca] l’anima dietro gli occhiali. I folli rabdomanti, quelli di cui, gli altri, ridono allo stecco che gli fiorisce in mano. Quelli, i poeti, col tremolante dono delle parole nelle mani, quelli che ancora, nonostante tutto, innalzano il canto della notte. Il riferimento alle parole, al loro esercizio e alla loro disciplina, è costante nella raccolta. Parole dissezionate, frantumate e ricostruite con tenacia, in un puzzle che rivela, alla fine, incastri inattesi, nuove forme e geometrie. Se la parola vera nasce dal silenzio/ voglio tacere, esclama Annamaria Ferramosca nella lirica “Ragno in goccia d’ambra”. Ma alla fine decide di urlare nel suo silenzio e tacere nel suo grido. Diventando anche lei, come il ragno, signore dell’equilibrio nella fragilità. Fragilità che altro non è, in fondo, che la frase stessa, il verso, la poesia. Anche lei stratega del fulmineo, capace di tessere minute architetture di parole senza restarvi invischiata e senza perdersi nel microscopico dedalo. Il trucco, ed il merito, è forse proprio quello dell’ibridazione, quella che confondesalta, quella che permette di dominare l’immenso mosaico di natura snatura. Dare, simpatizzare, controllare: la parola, il senso, la riflessione. La capacità dell’autrice di padroneggiare, con mano leggera e tuttavia fermissima, una materia ampia ed insidiosa, i mille rivoli del torrente carsico della parola. La lucida vertigine della comunicazione, la fantasia, la creatività. La volontà e il desiderio di non smettersi di chiedersi, come in “Ianuaria a Villa Pamphili”, che cosa ispiri la corsa libera di una bambina. Vorrei chiederle perché si muove come in sogno/ con che ali vola ogni giorno e a sera/ in quali radure s’addormenta. Chiede e si chiede costantemente l’autrice, nei versi di questa raccolta. Non per avere una risposta, di per sé impossibile, ma per godere dell’atto stesso della ricerca, di quella stessa incoercibile libertà. Perché la poesia per sua natura domanda, non risponde; questo è un dato di fatto. Ma è altrettanto sicuro che è arricchente seguire le domande consapevoli e armoniose che Annamaria Ferramosca pone a se stessa e a chiunque sappia ascoltarle e farle proprie, penetrando passo dopo passo all’interno delle “Porte” che dischiudono il dispiegarsi nel verso e nel pensiero del suo solido e accattivante universo poetico.
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