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Fabio
Pelosi, Il sonno leggero del padrone
Scudieri
Editrice, Avellino, 2003, pagg. 55- €5
Il
giovane Fabio Pelosi, nato ad Avellino nel 1973, del quale si sono occupati,
in sede critica, tra gli altri, Giampiero Neri, Marilla Battilana, Paolo
Valesio ed Antonio Spagnuolo, ci presenta questo suo nuovo testo, prefato
dallo stesso Spagnuolo intitolato Il sonno leggero del padrone, scandito
in due sezioni. L’autore ci dà l’immagine di un talento sicuro,
di una voce poetica già matura, che promette molto bene per esiti
futuri e che già ha trovato una certa originalità nella sua
dizione. Così
scrive Spagnuolo nella prefazione e, da questo brano, potremmo dedurre
una chiave interpretativa, o, forse, solo una chiave d’accesso, una porta
per accedere al mondo poetico di Pelosi ed esemplificarlo:-“Le ferite
lasciate dal quotidiano, dalla insoddisfazione, dalla solitudine, dall’amore
non corrisposto, dalle illusioni perdute, trovano fonte di coraggio in
quella espressione che trascende i limiti di ciascuno, sfumando i contorni
concreti dell’individuo e distribuendo una polifonia nei confini del tempo.
Rifugio ed icone di speranza le sequenze di una storia personale si intrecciano
e forse si scontrano con la Storia, rubando barlumi alle rovine…”:
Aggiungerei alle suddette parole di Spagnuolo che quella polifonia che
individua nelle poesie di Pelosi, può essere facilmente essere definita
ipersegno, quell’alone di magico che pare trascendere ed emanarsi da ogni
forma di poesia alta; la vita è così, nel suo eterno ritorno,
con le gioie e i dolori che caratterizzano l’esperienza umana e che, ovviamente,
il poeta, eterno fanciullino, per dirla con Giovanni Pascoli, vive
empaticamente e più fortemente del non-poeta. Anche
se, come si diceva, questi componimenti poetici possono essere considerati
delle icone di speranza, un rifugio, non sono certamente espressione di
un gemersi addosso, di un ripiegarsi sui propri dolori, in una vita che,
spesso, dà scacco all’essere umano e ancora di più al poeta,
ma piuttosto messaggi di speranza che escono dall’officina poetica di Fabio
Pelosi, proprio dimostrando la funzione salvifica della poesia: mai autocompiacimento,
ma sempre speranza, creando una forte sospensione: anche le ferite del
quotidiano si possono rimarginare con la forza della poesia e trovano forme
di coraggio in quella espressione che trascende i limiti di ciascuno. C’è
una notevole icasticità in questi versi, potremmo dire anche plastica:
c’è un io lirico forte e preciso che si esprime attraverso quello
che con un grido controllato: leggiamo il componimento intitolato
Zingaro
e (detrattore), che apre la raccolta :- “ Non chiederò più
e forse chiamerò/ se avrò voglia e se berrò da lettore./
Zingaro di maggio in giro per pregare/ un dio per me, e non per chi/ zavorra
speranza come su plichi dischiusi/ “ A cosa serve la tua presenza qui,/
detrattore delle mie sere?”. Chiesi a colui/ che calunnìò
il ricordo (mio).” In questo componimento c’è una forte tensione,
una riflessione sullo scrivere stesso e sul destinatario della parola poetica:
l’io lirico, forte e preciso, esprime con una crudezza d’immagini la sua
notte di lettore, da bere forse, come una bevanda inebriante. C’è
la figura dello zingaro che prega un dio astratto per il poeta,
c’è una zavorra di plichi dischiusi (che potrebbero contenere dei
testi, dei fogli inchiostrati, dei dattiloscritti di poesia): quindi la
poesia nella poesia come in un gioco di specchi. Nel
componimento intitolato L’indistinto, che è collocato nella
seconda scansione del libro intitolata Arzanà, c’è
di nuovo l’accenno ad un vago misticismo:-“ Cosa centra l’inverso, il
vago,/ l’indistinto che da laggiù si poggia/ soave/ sulla gobba
inerte di un picco?/ Sembrerebbe vespero,/ farina d’ore o resti di preghiera:/
troppo pretestuosa la supplica/ per non invocare un tocco, ancora,/ è
giù un cirro ad impennare l’occhio.// Io intendo un frenetico/ abbozzare
curve, ferri e lance, polveri che destino brusio, nel cuore e nei pugni
tesi, e che un giorno saranno arzanà…/”…nello sconcerto, il mio,/
e di chi morrà perplesso”, mi confidò il figlio di un eroe
mai visto”/ Qui c’è un progetto che s’invera per accumulo e
anche attraverso sprazzi di una materia incandescente e policroma, con
continui spegnimenti e accensioni, che si dipanano nelle due strofe del
testo: il misticismo è espresso in quella farina d’ore o nei
resti preghiera, nei quali il tessuto verbale si materializza. C’è
anche una certa visionarietà, nel testo suddetto, una forte icasticità
e un dominio dello stile, esito notevole in una materia così elaborata
e densa, eppure esatta e precisa: proprio nell’indistinto si collocano
questi versi, che, tornando al discorso sul potere salvifico della poesia,
come filo rosso per l’analisi di questo libro, dimostrano ancora una volta
la fiducia che il poeta ripone nella poesia, fiducia che si evince facilmente
nel componimento E io avvinto (guardavo):-“ Ed eccola lì la stella,/
punto fisso e grave, a fuggire, semmai, dalla bizzarra tavolozza/ di nube
incerta ma avida”/… E proprio in questa stella, nel suo pervadente
brillare, in qualche galassia sconosciuta, stella variabile, per dirla
con Sereni, c’è la possibilità di una redenzione morale attraverso
il dominio che, quasi per magica osmosi, passa dalla poesia, alla vita
e viceversa. 21
settembre 2003
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |