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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Il percorso poetico di
Cesare Ruffato
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“Linguisti
e semiologi culti dise
ch’el dialeto
parla forastoria
‘na leteratura
minore passà…
Linguisti
e semiologi colti dicono / che il dialetto parla fuori storia/
una letteratura
minore superata…”.
In Ruffato
invece non è presente l’intenzione di usare il dialetto come
lingua
estranea, morta; per lui il dialetto è una delle chiavi di lettura
- non l’unica
- di una “vicenda” rappresentata da una città: Padova diletta.
Per capire
sino in fondo il rapporto lingua-dialetto bisogna prendere atto
che esiste
una ‘questione non risolta’ sul tema letteratura: “La
letteratura
è un’attività spirituale che mira alla realizzazione di prodotti
esteticamente
edificanti oppure la portata sociale del fare letterario è
una delle
forme principali di elaborazione teorica?” (Edoardo Sanguineti,
L’Unità,
30/12/1991).
Il poeta
in dialetto sembra propendere per la seconda parte del problema;
anche come
atteggiamento di opposizione al potere che ha cercato e cerca
di imporre
i propri linguaggi consunti.
Considerando
però il dialetto come unica “lingua della poesia” si corre un
rischio:
quello di stabilire un legame stretto con la ‘strategia
dell’immediatezza’,
con la presunzione di attingere a una facile saggezza,
e l’incapacità
di confrontarsi con la negatività della storia..
Esistono
anche seri motivi per individuare alcuni pericoli e limiti delle
poetiche
dialettali (come rileva al riguardo Gian Mario Villalta su
Tratti,
44, primavera 1997, sotto il titolo “Ragioni e limiti delle
poetiche
neodialettali”); cioè:
1
L’accentuazione del fenomeno endoletterario, ovvero una circolazione
della poesia
limitata ai poeti, ai critici e ai “cultori della materia”.
2
L’autocompiacimento della emarginazione: il poeta, fiero della sua
diversità
e della particolarità della sua scelta, tende a sviluppare un
discorso
che non ha altre ragioni se non la diversità stessa e la stessa
particolarità
della propria scelta di campo. Dopo l’arcadia della
neo-avanguardia
e dello sperimentalismo, ecco affacciarsi l’ipotesi di
una arcadia
neodialettale.
3
L’assunzione in poesia di un dialetto non passato attraverso
l’esperienza
profonda del vissuto.
E’ necessario
quindi che il poeta in dialetto, per evitare di trovarsi
a proprio
agio nel ghetto della bella ricordanza, eviti di essere il
testimone
di una realtà demodé, con un insulso elogio dei tempi passati
che non
esistono più. Anche perché il dialetto, come la storia-mondo,
non è
mai statico ma in continuo movimento e mutazione, con miscele e
alternanze
di codici: è una lingua macchiata, straziata.
Lo ha ben
capito Ruffato che, nel licenziare il suo intero corpus di poeta
in dialetto,
Scribendi licentia (Marsilio, 1998) scrive nella sintetica
presentazione:
”Questo volume raccoglie la maggioranza dei testi poetici
in dialetto
padovano - mio ideale idioma da genuino diglotta ma sottoposto
a filtri
di cultura poliversa e ad influenze di gerghi professionali
affiorati
in privato ad iniziare dal 1960 e con processualità bioritmica
divenuti
impegno creativo editoriale nel decennio 1989-1998”. Il titolo,
esplicitato
in lingua dotta e con ambiguità ironica, precisa che si tratta
di “poesia
in volgare padovano”; e sembra voler far entrare in scena
l’autore
- professore coltissimo e scienziato - in forma sommessa.
In realtà
il poeta suggerisce al lettore l’opportunità di rintracciare
nella Parola
pìrola (1990) “una microstoria familiare, una cronaca
cittadina”
della sua città. Con il suo dialetto ‘memoriale’, una
scrittura
irta, ardua, una poesia ispida, ruspia/ruvida, intenta ad “aggredire”
idee e
parole più che fatti e cose - sempre per altro presenti come ‘cifra
nel
tappeto’
– Ruffato sembra voler individuare, in maniera esplicita,
una koiné
limitata di lettori; “…l’autore, conscio del rischio di operazione
di leggibilità
limitata, intende questa sua libera messa in scrittura un
tentativo
di corrispondere ai misteriosi richiami della voce” (così nella
Avvertenza
a Parola pìrola).
La sua
intera opera in dialetto - uno dei colori, forse il più splendente,
della ricca,
ampia tavolozza del poeta - mostra l’interesse rigoroso
dell’autore
per la ricerca-scavo sulla parola:
Parola malà/ Parola ammalata:
el rumore
fato dal gargato
le vocali
prime le consonanti strane
p inisiale
de padre pié pan ponte
a de albero
amore anema
r de rima
religio roba rumore
o de ora
origine opera orifissio
l de linea
letera lume limite
il rumore
prodotto dall’ugola/ le vocali prime le consonanti strane/
p iniziale
di padre piede pane ponte/ a di albero amore anima/ r di rima
religio
roba rumore/ o di ora origine opera orifizio/ l di linea lettera
lume limite.
Parola matita :
Busiéte
de la ponta matita
che no
intinge el paero, el legneto
scortegà
o massa uà se spaca
Piccole
bugie della punta matita/ che non intinge lo stoppino,
il legnetto/
scorticato o troppo affilato si rompe.
Parola
coi busi/ Parola coi buchi. Parola morbim/ Parola eccitata.
Parola
denaro. Parola droga: Parola pìrola pàrola nel scuro/ doping
scorpion
sbate sul muro/ specioso colabrodo la sfibra…
La parola
sofferta drogata sbattuta contro il muro (oppure è la parola
che sbatte
contro il muro cosa?) sale sui trampoli, viene urlata (la
parola
ga alsà la vose ossessa), diventa parola sguardo, fiaba,
affabulazione,
poesia-scavo. Senza però lasciarsi trasportare dal
fascino
dell’innamoramento della stessa e cadere nel castello
incantato
della lingua parlata solo in alcune riservate enclaves, con
il suo
sottinteso potere orfico: per Ruffato la parola ha un senso solo se
contiene
un pensiero denso, forte. La sua genialità nella scelta della
lingua-dialetto
pare risiedere nella capacità che essa ha di avvolgersi
su stessa
e non essere però più sufficiente per dire altro; quindi
è
continua
l’interrogazione che egli fa del mondo fenomenico che lo
circonda,
teso a una impossibile “scientifica” interpretazione complessiva.
Allora
la poesia-parola diventa un’allegoria della condizione contemporanea.
Ruffato
assume il dialetto come lingua della parola; e costruisce quasi
un’opera
astratta con uno strumento linguistico autonomo e, forse,
incomunicabile.
La ‘scommessa della comunicazione’ per altri così
importante,
sembra in lui essere messa sotto tono, per l’importanza
primaria
attribuita alla parola-scrittura, alla poesia-espressione che
dà
voce al senso delle cose.
Il mito
del viaggio dentro la parola attraversa per intero la sua opera
poetica;
una parola equivoca-ambigua-ambivalente piena di sottintesi
nelle sue
varianti classiche e moderne: “parola parabola” (latino),
“paraula”
(volgare); comunque sempre parola-protagonista.
Come è
stato da altri notato, in Ruffato la parola nasce da “una tensione
non solo
linguistica ma anche morale” (Mauro Marè): la scelta è sofferta,
meditata,
messa a confronto. La intuizione è quella giusta, essenziale
per dire
ciò che interessa al poeta in quel preciso momento (in dialetto
o in lingua).
Perché l’ambiguità semantica della parola (specie quella
in dialetto)
è il dono dato al poeta, che solo così può “comunicare”.
In R la
poesia procede la forma e l’artista cerca - e trova - le
forme-formatrici
che preesistono all’oggetto d’arte. La scrittura poetica
è
piena di fermenti di ricerca, giochi linguistici di rime, assonanze,
aggiornamento
del linguaggio:
Vose de
sità trapèla bai, russèi
de soni
neri, mòcoli morali, sguardi
fonfegai
d’un poema cuerto come coa
de funerale.
Zornali ramai piàtole
la sòfega
de pancatastrofe.
Voce di
città trapela tarli, ruscelli/ di suoni neri, moccoli morali,
sguardi
/ spiegazzati d’un poema ipocrita come coda/ di funerale.
Giornali
omai noiosi (blatte)/ la soffocano di pancatastrofi.
Il poeta
canta il suo poema - originale e acuto - contro quello
ipocrita,
simile alla coda distratta e annoiata di un funerale -;
come distratti
e annoiati sono i canti di tanti flebili cantori,
soffocati
nelle vane pancatastrofi - queste immense catastrofi che
stanno
a indicare la precarietà della vicenda-mondo: la flebile voce
del cantore,
sperduto nel villaggio globale, è incapace di chiudersi
nella dimensione
della sua ‘piccola patria’, dalla quale può invece
trovare
nuova linfa creativa. E ancora:
Nel mal
de mare del plafon imbarcà
increspo
l’eliosiesta, anca le stele
s’incolpa
in salisi crianti
che spuffa
giosse de luse
a caena
anemele, salutz e versi
che me
descolpa squasi rialsa i tolti
el futile
par finire la morte.
Nel mal
di mare del plafond dissestato/ raggrinzo l’eliosiesta,
anche le
stelle/ si colpevolizzano in salici piangenti/ che spruzzano
gocce di
luce/ a catena animelle, saluti e versi/ che mi discolpano
quasi risollevano
gli scomparsi / il futile per finire la morte.
La curiosità
del Ruffato scienziato fa capolino in questo Vose striga/
Voce
strega, articolato nei tre movimenti: Ciao vose/ Ciao voce,
Vose sìngana/
Voce gitana, Vose striga/ Voce strega.
Nel sentire
le voci che si rincorrono viene alla mente il lavoro di un
sofisticato
zoologo, “Il dialetto degli animali” di Wolfang Wickler
(Bollati
Boringhieri, 1988). Lo scienziato afferma: “gli uccelli sono
specialisti
di comunicazione a distanza in biotopi chiusi che non
consentono
sufficiente visibilità (boschi o foreste), e conseguentemente
essi si
sono perfezionati nella comunicazione acustica”. E’ la stessa
comunicazione
che la “voce” del poeta riesce a realizzare in un microcosmo
ormai chiuso
e isolato, di visibilità insufficiente: la città.
Ma la poesia
di Ruffato non è solo suono e ritmo, perché forte è
la sua
presenza
e il radicamento nella realtà che circonda, opprime e ferisce il
poeta (come
la morte prematura della figlia). Nel descrivere fatti,
eventi,
accadimenti egli rifiuta la lingua ‘pura’ della poesia: il suo dialetto
padovano
“rappresenta una sorta di contenitore reale, corrispondente a
una concreta
esperienza comunicativa, di quella sperimentazione
plurilinguistica”
(Francesco Zambon) da lui condotta nell’arco della
lunga produzione
poetica.
Lo “sguardo
al margine” accompagna il lettore attento ad attraversare
le microstorie
oblique, i cui versi hanno un andamento centripeto: nel
caos della
scrittura - segni criptici, fantastici, dispersi sulla
volubile
sabbia; o geroglifici incisi sull’acerbo e orgoglioso ebano;
come gravures
secche e sapienti che traspaiono dal fondo - l’intenzione
del poeta
è quella di conseguire un ordine (non l’Ordine) seguendo un
percorso
a spirale rovesciata: dal margine al centro. Il colloquio con
i testi
di Ruffato è difficile: una poesia ‘insofferente’ delle regole
della buona,
piana , piacevole lettura. Questo perché l’autore sembra
rivendicare
con forza il diritto di essere “oscuro”; senza però che l’oscurità
diventi
un banale gioco a nascondersi dietro fumose cortine di Nulla.
Per altro
il lettore non deve desistere di fronte alla oscurità: deve
penetrarla
sino in fondo e ‘comprenderla’ nelle sue sfolgoranti forme.
E’ già
stato indicato il rischio che si corre facendo ricorso al dialetto
come unica
e squisita “lingua della poesia”: quello di una afasica
circolazione
della stessa tra pochi (una poesia come cult). Inoltre lo
spericolato
sperimentalismo di Ruffato può lasciare intendere come il poeta
desideri
“giocare con la parola come si gioca con una bambola” . Così
non è,
perché il rischio della sperimentazione viene fugato in quanto
dentro
il verso trovi la realtà della prosa, ai livelli dell’impoetico
contemporaneo
- la contaminazione con ciò che non è ‘poetico’-.
Nel risvolto
di copertina di Scribendi licentia si legge: “I testi hanno
come lingua
di base il dialetto di Padova nella viva parlata quotidiana,
ma frequentemente
sollecitato e reinventato dal sogno sulla traccia di
lacerti
infantili e con volontari sbandamenti nell’italiano e in vari
linguaggi
settoriali. Comunque è sempre sottesa la ricerca di intensità
espressiva
con svariati registri di senso e intenti di ri-creazione”.
Nella scrittura
poetica di Ruffato l’opposizione non è tra passato e
presente
(la nostalgia di una Padova d’antan, tra l’Io che ricorda e la società
attuale
che lo circonda); perché il poeta ha sempre coscienza del pericolo
di essere
costretto nell’solamento di una minoranza linguistica. E se ciò
non accade
- come nel caso di chi chiede, con ironica umiltà , “licenza di
scrivere”
- allora si raggiunge (al di là e al di sopra di giochi
funambolici
con le parole) il livello alto della poesia.
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recensioni e note critiche