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Maria
Luisa Ripa, Parole dal silenzio
Delta
3 edizioni, Grottaminarda, 2003, pp. 94, Euro 12,00
Ogni
sensibilità profonda ha il bisogno di cercare un mezzo per esprimere
il dialogo interiore, come il protagonista de “Il tamburo di latta” raccontato
dal premio Nobel Günter Grass, che riesce a svelare il suo mondo interiore
solo attraverso un tamburo che lo accompagna per tutta la sua vita. Così
il poeta attraverso la sua opera esprime un mondo che grida dentro di se;
che preme fino a fondere la sua vita con la sua poesia. Penso a questo
mentre leggo la toccante raccolta dal titolo “Parole dal silenzio” uscita
a pochi giorni dalla scomparsa di Maria Luisa Ripa, artista poliedrica
e complessa che ha diviso la sua breve vita tra pittura, scultura, architettura
e poesia.
Un
diario dell’anima, scritto sul letto di ospedale (Tra letti in fila
/ il mio sguardo vaga / a cercare altri occhi / occhi come i miei / velati
da qualche lacrima / mai venuta giù…), che racconta il dolore
e invita a perdonarlo (Seduto sulla soglia del tuo esistere / aspetta
/ e perdona il tuo dolore), la speranza (Anima che canta / e sogna
/ Anima che prega / Anima che spera… / ancora spera), l’amicizia e
l’amore (ma ho un amico / un amico… / un amico che mi tiene / ed ho
un amore / un grande amore / accanto), la vita.
Immagini
forti e reali, che raccontano da dentro, senza mezzi termini, momenti sofferenti
ed attese intolleranti (Dormire… / Dormire… / Dormire / Cercare il sonno
/ come il pane.), quando si solleva il filo della stanchezza, nella
lotta con la malattia, restando quel bisogno di comunicare che si vede
sottratto poco a poco (Tutta me stessa sprofonda / nella vertigine della
stanchezza // Tacciono i pennelli / i colori seccati / sulla tavolozza
perduta… / che neanche rammento).
La
sconfitta della vita dovuta alla morte giovane, l’anello che non tiene
la sua circolarità per un disegno mancato, di cui ha abilmente parlato
Paolo Ruffilli nel suo libro “La gioia e il lutto” che tocca lo stesso
tema, qui sembra essere superata per la profondità di fede dell’autrice,
che vede il corpo non di appartenenza, ma con un percorso a se, che si
scinde dalla vita del pensiero la quale invece prosegue attraverso l’arte
qui in terra, e dell’anima che prosegue in una nuova vita, visto che Maria
Luisa riesce a chiudere questo libro (pag. 88: Vorrei guardarti)
con un dialogo d’amore, ed un invito ad ascoltare dal profondo e non seguire
i percorsi rigidi della ragione, ma attendere con serenità e perdonare
ogni dolore che incontriamo nell’esistenza.
Dal
punto di vista stilistico fin dalla sezione iniziale dal titolo “Quanta
musica in questo silenzio” vediamo predominante il verso spezzettato, breve,
espressione di un senso di incertezza e tribolazione (è lei stessa
che scrive “ha respiri brevi / il dolore”), a cui si contrappone
la successiva serenità raggiunta e mostrata con la linearità
della scrittura, con l’uso dell’endecasillabo, principalmente dalla sezione
“Ho lasciato che il tempo passasse”. In questa fase pochi enjambment usati
servono più a dar forza al sospiro, e non sono espressione dell’affaticamento
del respiro, che si mostra quindi regolare e tranquillo. Ma tra i versi
troviamo anche molti spazi bianchi, una sospensione, ricca di attese, di
riflessioni, di parole dal silenzio (“Il silenzio, a volte, – scrive in
prefazione Raffaele Barbieri – avvolge con cupo torpore il valore del mondo
reale).
Quello
che mi ha sempre colpito nel modo di dialogare di Maria Luisa, è
la sua ricerca di esprimere un mondo interiore attraverso il corpo, la
sua gestualità, la forma dei sentimenti attraverso le varie posizioni.
Così anche in questo libro, il disegno diventa uno strumento in
più per inviare i messaggi che partono dal profondo, e lasciano
vedere, nel contempo, di più il volto della realtà: il corpo
che muta, pur restando vigoroso difronte alle difficoltà, segno
di una forza di volontà e di fede che raramente troviamo nella vita.
Il
superamento della caducità delle cose attraverso l’Arte diventa
il motivo predominante di questa raccolta, la cui uscita è stata
voluta dalla stessa autrice, e mi porta alla mente dei versi di Luciano
Luisi, il quale nel dialogo con la morte parla della ricerca di una resistenza
al tempo delle parole che – scrive – : “ho inseguito con una lunga pena
/ perché il loro inchiostro fosse davvero indelebile. // Diventeranno
al tuo fiato solo una spenta cenere / come sarà di me, loro di tanto
più tese / a sconfiggere il tempo, a non volerti accettare.”,
tanto da far preoccupare il poeta della resistenza della sua opera al tempo,
più che la sua esistenza fisica.
Così
si compie anche il messaggio di Maria Luisa, la quale in una poesia parla
del corpo che si piega come una foglia, partecipando alla uguale situazione
delle altre foglie stanche, mentre in diverse composizioni è ricorrente
l’accartocciarsi del corpo, espressione non di sconfitta, ma del bisogno
di rinascita, che si esprime attraverso una posizione fetale che riporta
alla nascita, e ad una nuova vita. Una farfalla che attende di volare fuori
dal bozzolo, che nel suo passaggio ha lasciato una testimonianza commovente
difficilmente esprimibile se non con la poesia. 16
novembre 2003
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |