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Fabrizio
Bernini, La stessa razza
Introduzione
di Maurizio Cucchi, LietoColle, Parè (CO), 2003, pp. 32, euro 10,00
Nato ventinove anni fa nell’oltrepo pavese, Fabrizio Bernini si affaccia alla ribalta della scena poetica italiana con un’opera prima significativa (recente vincitrice del ‘Premio Orta’, per la sezione ‘Opera prima’), tanto più incisiva quanto più s’inserisce nel filone della cosiddetta linea lombarda portandovi però una boccata di realismo piemontese, ma non solo. La stessa razza si presenta certo debitore della narratività di Pavese, autore che lo stesso Bernini afferma di prediligere, e degli esiti didascalico-morali dell’ultima poesia sviluppata dallo stesso Cucchi, il quale sembra aver attinto, in un’opera di svolta come il recentissimo Per un secondo o un secolo, alla tradizione lombarda indietro fino a Bonvesin – ma vi aggiunge molto di suo, sia perché nella sintesi c’è sempre un superamento avvenuto, ma specialmente per il fatto che la sua poesia si direbbe che comprende, e pensa, direttamente per immagini, quasi che la parola e il pensiero poetico fossero il vedere tout-court, ma un vedere spezzato, aforistico, di per sé paratattico. Si può dire di Bernini quello che Contini disse un tempo di un altro poeta: che è un poeta della vista, non della visione – ma la sua vista è appunto contemporanea, cinematografica, come risultante da un montaggio a scatti di immagini. A sottendere che, come la percezione umana sembra essere “continua”, ciò che accade nella realtà sembra svilupparsi in modo del tutto “discontinuo”. Molti sono i testi poetici del libro costruiti più che con la mano con l’occhio, un occhio-intelligenza che scompone i fatti in infiniti, lucidissimi settori, concatenati dal filo invisibile del sottinteso (da ciò la paratassi, che certe volte conferisce a certi versi il sapore della sentenza categorica): in Rintocco di mezzanotte, Gli altri fiori, Esperienza, Ripostiglio, Conto alla rovescia, Vizi, Purtoppo, Indomito, Sconfitte, si delineano quelle vicende “metropolitane” che più risentono della linea lombarda, ma allo stesso tempo mostrano la grande tecnica costruttiva di Bernini: in Inversione, per esempio, tutta la narrazione della vicenda di un ragazzo che d’estate guarda le ragazze nella piscina del giardini vicino, si risolve, come accade qui in quelle poesie con minore tasso didascalico, in una inarcatura di senso nel finale che è davvero folgorante: “Nell’inverno vedrà le ragazze arrivare e / sparire in casa. Gli resterà il vecchio, / toccare in un quadro la stessa stagione” (p. 8). La “frammentazione organica” di cui si parla è proprio ciò che consente alla scrittura di Bernini di essere per converso didascalica, di farsi immagine “morale” di quella che l’autore chiama la “stessa razza” – il poeta stesso, la sua generazione, ma anche tutte le persone, e infine tutto ciò che vive in questo mondo, che è accomunato dal suo essere “terrestre” e “naturale”, anche se distorto dal falso progresso: “Questa terra ha un respiro pesante, fatto col pugno / dell’aria. Ogni terra è un fiato, in ogni luogo si sente. / C’è gente che cresce in posti più soffocati: asfalto, cemento, / plastica in bocca e tra i denti. Anche quella è una terra / da ascoltare nel suo ansito strozzato, intoppato alla foce” (p. 10). Si è rilevato che il gruppo di testi a più alto tasso didascalico, che fra l’altro sono quasi esattamente la metà delle poesie del libro – e crediamo che l’autore ne sia perfettamente cosciente, visto che ad un primo esame tutto il libro sembra proprio costruito sull’alternanza di narrazione (con le caratteristiche sopra descritte) e didascalia –, caratterizzati anche questi da una forte paratassi, fanno della costruzione aforistica il loro punto di forza, una capacità di sintesi morale che davvero sembra avere pochi rivali in questo momento nella giovane poesia italiana. L’andamento aforistico, che tende a dilatarsi in tutto il singolo testo per concrezioni e aumenti progressivi di significazione, è l’espediente che rende di fatto l’esperienza del poeta paradigmatica di quella della sua generazione, una sorta di auto-ritratto che diventa colletivo: “Avere voluto. Questo e nient’altro” (p. 3); “Eccoci. C’è chi si arrotola e chi accende / la miccia. Nel senso ci si accomoda in ordine / alfabetico, per intenzioni e per ubiquità. / Cosa o non cosa è labile. Dio non c’è, / ci sono io” (p. 5); “(…) Sei proprio tu che dici / che non si può capire. Sono d’accordo. / Comprendere è impensabile, ognuno è / freccia e bersaglio, assomiglia / alla distanza che li separa (…)” (p. 16); “(…) Le due di un pomeriggio. / Trinciato dalla lentezza” (p. 17); “(…) Abituarsi al secco / del cuore. Dal mattino una distrazione il resto: / andare, venire, umiliare le braccia e la sobrietà. / (…) Ecco il marchio. Ciò che siamo è invulnerabile” (p. 20); “L’ultima cosa che avrò da dirti non ci sarà” (p. 25); “(…) Ecco a cosa vale / calcolare il centimetro del bene, / quasi un accartocciamento sui nervi: / rigetto e sapore” (p. 27). Fino alla sintesi del testo finale, Il sorriso del male, che vale la pena di riportare per intero: “Non ci sarò per il bene e l’oggetto / resterò a distanza, sull’intercorrere / che divarica la storia. Introduco / il rimorso, l’errore, la grama battaglia / contro il feltro del cuore. Bisogna che / aggiusti la pendenza, che questo veleno / coli verso il chiasso. / Abbastanza da farne un grumo, uno scudo. / Alla gola. Lì è il mio pozzo / di freddo” (p. 31). 23
novembre 2003
Indice della sezione Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |