Giorgio
Bàrberi Squarotti, Le Langhe e i sogni
Joker Ed.,
Novi Ligure, 2003
“Le
Langhe e i sogni”, un titolo neutro, sfumato, quasi ossimorico. Intrinsecamente,
per quel porre a fianco una zona geografica ben definita con l’area illimitata
e non catalogabile della dimensione onirica. Ma ossimorico anche e soprattutto
in riferimento alla materia trattata, e il termine “materia” risulta per
vari aspetti consono. I versi del libro danno vita ad una successione costante
di corpi, edifici, alberi, strade. La consistenza dell’essere osservata,
percepita e riprodotta nel verso e tramite il verso nella sua oggettiva
concretezza.
Eppure,
lirica dopo lirica, il titolo, la suggestione che evoca, l’approccio, l’occhio
e la voce, risultano chiari, espliciti. Ci sono le Langhe, vissute, percorse
e sognate, e ci sono i sogni, percorsi e vissuti fino a farne terra, colle,
vino, sangue, parola.
C’è
in questo libro la capacità dell’autore di porsi in quella esatta
postura fisica e mentale, ad una distanza millimetricamente esatta, per
cogliere con un solo sguardo i pori pulsanti, le rughe, le smagliature,
il taglio delle labbra, la fascinosa e spietata determinatezza dell’essere,
e, accanto, sopra, sotto, dentro, l’altrettanto inesorabile essenza dell’incorporeo.
Come
un pittore, un fotografo, un paparazzo dell’eterno, di quel mistero senza
tempo né soluzione che è la bellezza, il dolore, la fame
e sete di vita, Bàrberi passa, osserva, cattura, annota. Con un
sorriso appena accennato e l’occhio socchiuso, a fessura, per vedere più
in là, per non essere abbagliato dalla luce. Viene fatto di individuarla,
questa luce, nel potere stesso della parola, della voce letteraria che
da secoli investe ogni angolo, ogni aspetto, ogni concetto. Bàrberi
conserva con serena tenacia l’abilità ad isolare la sua attività
di poeta da quella di critico. I modelli letterari che per decenni ha letto
ed analizzato per ragioni professionali scompaiono quando scrive i suoi
versi. O meglio, si sublimano, si diffondono nell’intero arco delle composizioni
come un fertile pulviscolo in cui tutto è presente ma niente è
identificabile. L’originalità dello stile di Bàrberi è
tanto assoluta quanto spontanea. L’impronta è del tutto personale
e riconoscibile, un modo di porsi, il marchio ben nitido di una sensualità
malinconica, un realismo etereo, una narrazione in versi di vicende quotidiane
e senza tempo, l’emozione contrastata ed acuita dall’ironia, la solidità
di una lieve riflessione sull’essere.
Si
colloca Bàrberi a metà tra la zona d’ombra del pensiero rievocato,
rivissuto, e la sferzata diretta del sole sulla pelle nuda. E’ legato anche
a questo forse il suo amore antico per le Langhe. Terra di colline, di
alternanze di nebbie e chiarori, urla e silenzi, volti aspri e gioviali.
In quella zona di confine isolata e mondana può cogliere ambivalenze
e contrasti, può essere filosofo osservando i seni in fiore di una
ragazza ed essere sanguigno come un calice di dolcetto lasciandosi andare,
per qualche verso, al pensiero del tempo, la caducità, la sorte
che attende qualche passo avanti, oltre i fianchi della collina, verso
il fondo di un bicchiere che continua a scemare. Al termine di una gioia
che appare presente e sempre più lontana.
“Volle
offrire la festa dell’inizio”, recita il primo verso della poesia che apre
la raccolta. Ed è significativo, ironicamente, il non sapere neppure
di quale inizio si parli. Forse l’inizio di tutto. O forse di nulla. Qualcosa
di banale, la vita magari: “un fazzoletto forse sporco, storto”. Definizione
perfetta della più perfetta delle imperfezioni. O perlomeno della
più affascinante. O forse si parla di una festa pura e semplice,
come indica il titolo della lirica. Niente di speciale, oggetti, cose,
nature morte che occupano e ingoiano la tela. I dolci, le pizzette, le
arance, la bottiglia di barbera. O ancora, semplicemente, un momento qualunque
di un’esistenza qualsiasi. L’essere che aspira ad esistere. Tutto questo
e forse niente di ciò. Perché Bàrberi, come ogni fotografo
di talento, coglie l’istante, lo rende luce e chiaroscuro. Dà forma
e misura ad un fotogramma solo in apparenza statico. Accade qualcosa. Tocca
a noi vederlo, individuarlo. Nella liturgia solenne e misera del quotidiano,
nel momento che passa e scivola subdolo, una parola, un aggettivo, un termine
idoneo possono far cogliere il bagliore, quel brivido indefinito che separa
il silenzio dalla poesia.
La
ragazza della festa trova allora la sua collocazione, il senso del suo
inizio. Trova il perché e ce lo fa trovare iniziando a spogliarsi,
“pure in questo/ inesperta e turbata, e imbarazzata” e mostrandosi “nuda
nel vivo fulgore/ come la Verità che è, finalmente”.
Prosegue
poi la festa, amara e dolce ad ogni verso, ogni poesia, ogni osservazione
attenta dello scorrere e del trascorrere. Seduto di fronte ad un’osteria,
su un autobus, un letto, un muro, ai margini di una strada, guarda, l’autore,
l’alternarsi di volti e storie. Volti e corpi di donne in particolare.
Lo specchio più fedele delle bugie e delle realtà. Fedele
e splendidamente fedifrago. Donne di ogni età, con i segreti che
è bello vedere e quelli che è bello lasciare nel buio della
mente, nella penombra del sogno. Età diverse, sfiorate, attraversate.
Lasciate passare davanti agli occhi e dentro le dita come un laico rosario.
Per scoprire e riscoprire volta per volta che la distanza che separa reale
e sognato è soltanto un profumo. Un alone impalpabile, inconsistente.
L’essenza che avvolge e sfiora il volto di una quindicenne “dubbioso e
ilare, nella bruna luce,/ se mai fossero il vero del suo tempo/ le nevi
amate e forti delle Alpi”. La sostanza “esigua dei tremanti veli, i petali/
di rose, l’erba, le pudiche foglie/ che l’aria subito solleva, ma/ dolcemente
per un supremo scherzo/ del Tempo”.
Il
profumo passa rapido e suadente come l’alta ciclista bionda che “percorreva
la strada storta lungo il Belbo/ sudata, sempre più affaticata,/
nella speranza di arrivare infine/ alle sorgenti roride”. La strada, la
ricerca di una meta, un attimo di respiro rincorso, afferrato, strappato
al sarcasmo dello spazio che si chiude beffardo al di là di una
curva cieca. Il timore, condiviso, che “in quel luogo misterioso”, non
importa dove, non importa quale, “ci fosse un dio potente/ e divertito,
in paziente attesa”.
Dal
quadro effimero, l’immagine colta al volo da acrobatico cronista di emozioni,
Bàrberi ci porta gradualmente e senza orpelli dentro una dimensione
narrativa scandita a tratti dall’uso del passato remoto alternato al passato
prossimo in un’armonica staffetta. L’evento quotidiano viene distanziato
nel tempo, isolato e reso solenne. Non necessitano accadimenti epocali.
E’ sufficiente annotare che la ragazza “si arrestò/ a una curva
ripida” e contemplò per un po’ “un cerchio esatto di cielo celeste”
percorso da un falco. Un istante. Ma in quel cerchio esatto di cielo c’è
il solo evento che conta. La vita, tesa, estatica, si scruta in uno specchio
e di quello specchio si fa forma. Non per capire, esercizio fuori portata
persino per l’atletica ragazza, ma, piuttosto, per rincorrere, per inseguire.
Per raccontare, nel segmento del verso, i tornanti e i rettilinei, il tragitto,
l’attesa.
Poesia
narrativa e lirica simultaneamente e con identico vigore. Dire l’istante
che passa, il gesto, il dettaglio, per far sì che corpi e oggetti
si facciano pensiero, moto dell’animo. Riducendo in tal modo anche la distanza
tra esperienza ed immaginazione. “La clef des songes aveva la donna/ [...]
così dolcemente colmo il corpo/ lungo, disteso su un intreccio rigido
[...]/ divina melancholia di tutte/ le avventure e le attese e la speranza/
della bellezza della carne e d’anima”.
Sono
numerose le chiavi della donna dei sogni, vicende ed azioni che aprono
e serrano a piacere le bocche dischiuse del corpo, il canto più
tenace e la strada “ripida e spinosa/ fino al punto ove non è più
possibile/ salire anche se follemente azzurra/ è l’aria ed è
compatta quasi”. La realtà, per osmosi, acquisisce la lievità
del sogno e l’essenza onirica si fa tangibile, corposa, dotata di membra
e sangue.
Una
mirabile mistura alchemica quella che si muove all’interno dei versi di
Bàrberi Squarotti. Pervade articolati alambicchi con moto fluido.
La sostanza prodotta è armonica, l’artificio scompare, si dissolve.
Resta l’immediatezza, la capacità di chiamare a vedere, ad osservare
nel senso più ampio e polisemico del termine, con voce pacata ma
sempre convincente.
Al
pari degli strumenti racchiusi nella bottega de “L’occhialaio di Amsterdam”,
lo Spinoza particolarmente amato dall’autore e citato nella sua raccolta
“Visioni e altro”, i versi di Bàrberi hanno il potere di rendere
tangibile ciò che non c’è. “Io ho le lenti mal riuscite,
che deformano/ le figure e anche i cieli, creano strisce/ di vario colore,
cubi, linee nere/ lunghe fino all’orizzonte a ancora oltre/ volti quadrati
e cerchi che non hanno/ centro”. Così scriveva Bàrberi parlando
dell’occhialaio e forse anche della poesia. Cannocchiale rovesciato che
confonde vicino e lontano, dettaglio e panorama, la luna immensa nel cielo
e il neo bruno sulla schiena nuda di un’esile fanciulla. Torbida e limpida
metafora. Cristallina è solo la capacità dell’autore di inquadrare
in una costante, circolare carrellata una galleria di figure umane. Senza
mai ripetersi, senza mai soffermarsi due volte sullo stesso particolare,
una mano, una bocca, uno sguardo. Sempre nuovi la gamma e il modello, perché
lo zoom che esplora le linee e gli anfratti dei corpi colti nell’atto di
tentare la vita individua costantemente, tra i pori, sulla pelle, la ferita
aperta, lo spirito, l’anelito. L’attimo in cui si mescola “festosa nudità
e sconvolti abiti e indecenti”, e il quadro diventa “un’altra descrizione/
vera così come vero è il sogno/ di ogni vita”.
Ironia
sapiente e pienezza di senso, efficaci proprio perché corteggiate
con gusto, con mano e voce leggera. Come si corteggia una donna bella e
conscia del proprio fascino. Ironia indiretta, sottile, appena percepibile,
da cogliere in un dettaglio, una preziosa minuzia. Ironia da filosofo capace
di sorridere, con lo sguardo aperto nel sottile equilibrio trovato e mantenuto
con tenacia che gli consente di parlare, senza disturbarlo nella sua sede
inarrivabile di nome e concetto, persino del destino, del senso, di quel
dialogo mai del tutto compreso, mai del tutto concluso, con un Dio complesso
e dubbioso, turoldiano. Di guerra, di pace, della quiete dei colli e dei
volti lividi delle mattine torinesi.
Continua
Bàrberi anche in questo suo recente volume a parlarci delle passioni
e visioni che orientano la sua poetica. I frutti della terra, le stagioni,
l’uomo, il tempo da rincorrere e da inventare. Ci racconta delle donne
che ha incontrato, l’enigma malioso dei giorni. Di una ragazza di nome
Flora, di come “camminava leggera sulle edere/ cupe e pure stabilmente
amorose”, ci tratteggia il suo “volto severo quasi infantile/ ancora” e
ci conduce con lei “verso l’ascesa alla collina e al vento”, con lei che
è “l’unica festa e duratura,/ nome e immagine che una volta ancora/
si è concretata nel corpo giocoso”.
Ritratto
accurato di mano lieve e sicura, amorevole, ispirata. Il volto e il corpo
di una ragazza incontrata per strada, amata per un istante che dura per
sempre. Nome e immagine del corpo giocoso, la vita, la carne fragile e
fascinosa che le separa e le salda assieme indissolubilmente. La certezza,
il dubbio, il pensiero che amoreggia, tra umanissime esitazioni e ritrosie,
con il senso e la sensualità. La poesia, Flora e tutte le altre
donne che Bàrberi insegue, ama e ci fa amare in questo suo volume.
In questo appassionato viaggio a fianco dei suoi versi tra le colline delle
Langhe e dentro il vento dei sogni. In direzione di lei, l’unica festa
duratura, la parola che si corpo e da esso trae linfa, lo stupore sempre
nuovo della passione, dell’armonia.