|
Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Gilberto
Finzi, Soldatino d'aria
|
A frugare
entro la naturalezza e la destrezza di un poeta, occhiutamente analitico
e determinatamente
coordinato, in fondo ci si ritrova nella forza di espressione
che Finzi
ha sempre saputo documentare con i suoi libri, conservando fra i residui
di un passato
culturale una chiara proposta del testo, innovato in tutto o in parte,
fra le
valenze propositive della contemporaneità, ove l’indole protestatoria
dell’autore
straripa
al di là della parodia o della invenzione nella sua amara
diagnosi di difficile
recupero
della vera poesia.
“…segue
non da oggi una sua vena a metà fra tetro e grottesco: ossessionato
dai colori ,
specie
dal nero e dal verde, in un suo modo di interpretare, anzi di praticare
la poesia.
Che in
Finzi non è mai o quasi mai canto totalizzante, a gola spiegata,
- scrive in un pezzo
recensivo
Giampiero Rugarli – bensì glossa ironica e talvolta acidula delle
aporie che lastricano
l’itinerario
umano”.
Stando
alla forma e al contenuto significante, nella continuità dell’evoluzione
degli incisi
della coscienza, l’ onirico scaturisce da una continuità logica
individuabile
nei particolari
della esistenza quotidiana, apparentemente casuali per gli aspetti non
recepibili,
ma consistenti
di solito in alterazioni più o meno evidenti dello stato di allerta.
Eppure
tutto accade fra gli accidentati bisogni del corpo, il trasformarsi delle
emozioni,
lo sfigurarsi
delle speranze, lo screpolarsi delle abitudini, per cui quanto più
è esteso
il microcosmo
individuale tanto più problematico e complesso è governarne
il percorso,
spiando
ed indagando entro tutte le sue insidie.
Senza alcuna
difficoltà si scopre ancora che dopotutto il sogno non è
mai avulso dalla continuità
della coscienza,
perché sono rintracciabili tutte le strutture che rimandano alla
memoria.
“nella stanza
più grande di casa
alta verde
mano- convitato di pietra- là
dietro
il ciliegio del tavolo dove
da cento
anni e più
sognano
di parlarsi gli Spiriti Morti-
se fruscia
secca una foglia e
rumorosamente
cade- sei tu che da dentro
immobile
muovi la mano, e segni
in calce
alla tua (con la pietra
bianca
dell’inesistenza) ficus beniamina
un’eco
appena, un tema,
un rimedio
fantasma
perché
la tua pianta insista
nella terrosa
sua realtà” (pag. 34)
Il taglio
originale , che lo innalza al ruolo di costruttore del verso, figurato
e sfigurato
sul piano
delle cose concrete, lo impegna a scrollarsi di dosso la smania del dire
a tutti i costi,
nelle figure
per le quali nessun cambiamento è possibile senza la seduzione del
subconscio.
In un senso
di diaspora individuale Finzi cerca di comunicare un sospetto di vita unificata
che si
sperde in una curiosa frattura fra l’ardimento formale e l’efficacia della
sonorità
o del ritmo.
La trasformazione di una situazione psichica dell’io cosciente
viene interpretata
con le
rappresentazioni delle immagini archetipe come fenomeno totale non coincidente
con l’io,
cioè
con la personalità conscia, ma interamente afferrabile dalla parola,
prima ancora
che essa
possa essere messa a contatto con il pensiero, con l’ipotesi
della conseguenza logica
o dell’ignoto,
che si descrive attraverso i sensi sperimentabili direttamente.
“ uno di
voi nessuno
apriste
apra apriremo una scena o una porta
l’unica
che dà sul dopo
e un vuoto
strato di neve sbilenca
che da
scala trappola e chimera
sbràncola
e inciampa, virgola e branca
i tre-quattro
mondi della solitudine.
Escalier,
escalier! Tu m’a donné
-quoi-
l’eternité- o soffusa di tempo, ladra-
il non
è mai passato che per un solo secondo (il tempo)-
solo momento,
il tempo – il naso buco e spaccato dal silenzio
raccapriccia,
e via sgriccia di sale in sale
i gemelli
per mano conducono adducono
una di
due cose ignote al vivo, pure illìmiti
fino al
debito di stelle, fino al culmine
di nevi
sognate, fino al dorso
della sozza
e sepolta nel lungo dopo
ma il fuggitivo
inferno porta le onde
al piede
dell’amore, e bacia l’altra
deforma
faccia, morta, della luna-mondo.
Chissà
chi viene, chi va, da dove e perché,
sarà
per vivere di vita un dopo, un poco,
un’infinita
e bella vività di eterno?” (pagg. 9, 10)
Lo spazio
che Gilberto Finzi attraversa con le sue composizioni dà un senso
suo proprio
alla trasgressione
del vocabolo, senza mai calpestare gli arbusti, senza proporre violenze
che sciorinano
le verità assolute, adeguando, altrettanto convincente, le
aspirazioni
di una
generazione, all’altezza del proprio disagio, alla fine di un sogno culturale,
che non
ha mai dato certezza, rivestendo una natura circolare che non può
sparire
al centro
della scena, se non dopo aver detto di se , senza un perché, senza
una ragione.
Le immagini
del sogno partecipano allora degli avvenimenti quotidiani, consumandosi
in una
amalgama che non vuole venire a patti con la realtà, e confluiscono
nel tessuto verbale
che l’autore
ricama in soluzioni espressive insolite e strettamente personali.
Una volta
desto l’eterogenea pulsione di riempire il vuoto costringe il poeta al
dubbio,
quel famoso
dubbio esistenziale che ci accompagna giorno dopo giorno , nel consumarsi
inevitabile
delle tavole, della instabilità fisica, della esigenza di liberare
le maglie
del contingente
per creare nuove occasioni, anche se il futuro diviene maledettamente
sempre
più corto.
“quello
che tiene insieme corpo e mente, carne e niente,
non è
più vero di un chiodo o di uno spillo- parte bene,chissà,
poi strappa
e scatta e lacera-
dubbio,
incertezza, malattia la chiamo,
invece è solo
la fine
di tutto.” (pag.91)
Un dubbio
involontario, imposto dalla storia personale e dagli eventi, un dubbio
che si
affaccia a passo svelto anche verso ciò che dovrebbe essere l’anima,
lo spirito,
che qui
l’autore indica con “mente”, correggendosi subito per incidere con quel
“niente”,
che distrugge
ogni ipotesi di al di là.