Enrica
Salvaneschi, Poesia, ed. Gazebo, 2000, s.i.p.
La
pasta con la quale viene amalgamato questo poemetto di seicentoquindici
versi
ha
la caratteristica della sostanza capace di trasformarsi, a seconda delle
incidenze,
in
qualcosa che arricchisca di nuove consapevolezze il dettato da una parte
e
l’esperienza vissuta dall’altra.
“E
tuttavia, in questa vanità
ti
parlo, e ti ripeto in penitenza
quello
che in vita non ti dissi mai
-da
quando, nel mattino di un’estate
matura
a tracimare finalmente
dentro
l’autunno ricamato d’oro,
fui
gettata alla luce, empio tesoro:
esiliata
dall’umido, fiammante
seno
materno ormai inospitale
-quasi
letale, albume destruente-
nel
sereno, tramato veleno,
di
questo mondo assurdo e seducente…” (pag.8)
L’oggetto
contemplato, - qui la poesia non è follia o ebbrezza - amaro, nasce
a prescindere
da
tutto e da tutti, e attenta a non mollare gli ormeggi, con una intelligenza
vivida,
sotto
la buccia del disincanto, la Enrica coglie causticamente la disperazione
in una scelta
anacronistica
di quanto il segno dell’alterità possa ritrovarvi…Un chiaro richiamo
leopardiano
che
ci costringe ancora una volta a sospettare di questo mondo, con la sua
natura matrigna ed ingannevole.
Nello
sciogliere l’attimo in cui le metamorfosi naturali cangiano i registri
della sofferenza umana
in
altrettanti urli contro e per la disperazione la Salvaneschi raccoglie
con accuratezza
ed
una attenta critica le gocce che l’onirico le somministra con misurata
abbondanza:
“Per
il tuo tempo ormai finito, amore,
per
la tua pelle fine e vellutata,
per
il mio contributo al tuo morire,
per
il mio impunibile, impunito
delitto
di illegittima difesa,
e
quindi in espiabile mia colpa
di
crudeltà costante e consapevole…
…per
il cibo residuo, vomitato
stagnante
dalle inerti tue narici,
colto
dal gesto tenero, spietato,
che
lo deterse, e ne minimizzò
il
valore di spia inequivocabile…” (pag.7)
Taccuino
alla mano i passi diventano a mano a mano coerentemente riconoscibili quali
esplosioni
della
memoria, turbamenti del rimorso, gioia della ribellione, frattura dell’inconscio,
sistemati
correttamente
in chiarezza e piacevolezza fra le penetranti definizioni del racconto:
l’ombra
di
una persona cara riempie il ricordo costringendo l’autrice spesso alla
forza della parola,
alla
centralità del lettore, al destino delle emozioni, alla sorte stessa
della caducità, segnata
dalla
vita umana e per la vita umana, imprevedibile, e pur leggibilissima, nel
simbolico,
nel
mistico, nella sorpresa fuori dal vissuto sognato.
“La
poesia cattiva
ti
afferrò sul confine della vita,
sul
margine di tenebra infinita,
della
notte perpetua e troglodita:
il
tuo dolore generò un meschino
bisogno
di rancore nel dispetto
contro
chi, assistendoti, assisteva
alla
maligna tua trista deriva…” (pag. 13)
Chiaro
appare il riferimento alla distruzione lenta e triste di un essere amato:
la vita non può
essere
trattenuta da una cifra immobile, nella fugacità dell’eco o nella
impossibilità del ricordo,
nella
necessità di una catarsi da urlare apertamente contro il destino,
anche se implacabile
e
terribile.
Non
c’è rassegnazione nella scomparsa di un uomo, anche se potremmo
avere rassegnazione
ed
amare la scomparsa di quell’uomo che crediamo nel seno senza fondo dal
quale egli è venuto:
un
tremendo equivoco religioso si affaccia nel bisogno di cancellare per ricostruirne
la figura,
preesistente
all’amore, cosciente di una storia tutta da scrivere.