Lello
Voce, Farfalle da combattimento, prefazione di Nanni Balestrini
con
una nota di Jovanotti, Milano, Bompiani, 1999
Fa
piacere constatare che nel panorama alquanto desolante della poesia italiana
contemporanea
esistono
ancora delle voci fresche e vitali come quella di Lello Voce, sicuramente
tra i più attivi promoters
di
eventi legati alla produzione/sperimentazione/esecuzione poetica, tra cui
il VeronaRap festival del 1998
e
le riviste d'avanguardia Altri Termini e Baldus. L'aspetto che più
immediatamente colpisce
in
Farfalle da combattimento, terza raccolta di Voce, è la ricerca
di un suo originale rapporto con la tradizione
italiana
e non, rapporto che, lungi dal basarsi sull'imitazione pedissequa di modelli
passati (e passatisti),
tenta
la via di derivazioni e contaminazioni multiple a partire dal corpus eterogeneo
e fluttuante
della
scrittura di autori minori e (a torto) sconosciuti o disconosciuti, come
i brasiliani Haroldo
e
Augusto de Campos, l'inglese G. M. Hopkins e l'italiano P. Jahier. Al di
là dell'operazione più squisitamente
(ma
non pedantemente) letteraria, i testi si propongono per una loro
apparentemente facile cantabilità
(allegato
al libro è un cd musicale con il pezzo Rap di fine secolo [e millennio]
cantato da Voce stesso),
frutto
di sapiente maestria tecnica nel piegare le sonorità irruenti di
un verso aggressivo e instabile
alla
ritmicità di forme più o meno aperte. Dico più o meno
aperte perché Voce è un poeta versatile e completo,
che
passa con grande disinvoltura da forme seriali e discontinue, come la Canzone
del destino (o di Jahier)
o
il summenzionato Rap di fine secolo [e millennio] ai sonetti in doppio
endecasillabo della sezione Rorschach.
Si
tratta, in ogni caso, di episodi collegati dal sottile filo rosso (è
proprio il caso) di una voce poetica personale
e
originalissima, che alterna momenti di protesta politica "pura e dura",
non di rado sfocianti nello slogan
da
strada ("lavoro, lavoro! nc''a date 'sta fatica, o no? / lavoro, lavoro!
obreros que quieren trabajar! /
lavoro,
lavoro, oppure è strike, che te piace o no!", p. 8) a incursioni
in un privato sempre insidiato
dagli
incubi della omologazione consumistica e, in ultima analisi, dall'impasse
della globalizzazione:
Dipinta
la mia cappella come Sistina postindustriale
da
condom con tintura atossica testata ultra-naturale
(con
colore, taglia e assortimento da scegliere al momento
a
seconda della stagione, pelle o particolare accadimento
ma
resto insoddisfatto, perplesso e non affondo
mi
guardo il mio fratello vestito per la festa
e
poi la tua cosina rosa e nuda e lo nascondo
(non è abbastanza trendy da perderci la
testa…
(Condom&Poetry
n..2, p.47)
Al
di là di tutto, colpisce in Farfalle da combattimento una certa
qual ostinata volontà di navigare
controcorrente
rispetto alle torpide acque della poesia "ufficiale", accademico-ermetica
o aulico-petrarchesca
che
dir si voglia, per affondare i denti con rabbia e acrimonia nel disagio
esistenziale di una generazione,
le
cui cause politiche e ideologiche Voce mostra di aver sempre lucidamente
presenti. Che si tratti
della
resistenza ad oltranza degli indios del Chiapas (Canzone delle lotte (o
di Marco Durito Zapatista)
o
di quella, non meno reale, sperimentata attraverso le torsioni sintattico-nominali
di un linguaggio
disarticolato
e sganciato dalla funzione strumentale e omologante cui è sottoposto
nei circuiti
della
comunicazionedi massa, la poesia di Voce esprime comunque una volontà
di dissenso radicale
e
incolmabile rispetto all'esistente.
Pare
di avvertire echi della "fattografia" majakovskijana, stralunata deformazione
del reale ad opera
di
un vitalità esuberante quanto ironica (o sarcastica) o della lucidità
critica di un Pasolini nelle pagine
più
riuscite di questo libricino, che rifugge dagli esiti scontati della retorica
politica quanto dalle prolisse
oscurità
dell'avanguardia più gratuitamente ripiegata su se stessa. Sono
frequenti in Voce momenti
di un virtuosismo
della parola che non è mai fine a se stesso, ma trasferisce l'intensità
della visione
sulla pagina
scritta con una forza e una pregnanza che fanno del naufragio finale della
civiltà europea
una realtà
presente ai nostri sensi, prima ancora che alla nostra mente:
fine
finalmente finita fine fissato flusso di flutti feroci a finis-mondo a
finis-terra a finis-tempo fibula
finta e
fine fetta-fibroma frutta friabile e frugale filo e fiore fretta fugace
fine fra fini fine fra feste fine
fra folti
boschi d'inganni e utopie e terrori che vagano tra il ponte e il fondo
della stiva del mondo
col fumaiolo
in stelle e feste e fuochi e fumi verso il cielo e la prua a contro-mare
che taglia tempo
e millennio
e scorcia l'orizzonte con l'universo in bonaccia e le galassie in espansione
con moto ondoso e calmo…
(da
Rap di fine secolo [e millennio] (o di G. M. Hopkins), p. 16; il testo,
che è il remake di The Wreck
of Deutschland
di G. M. Hopkins, ha come epigrafe una frase di Frei Tito de Alençar
Lima, leader dei
sem terra
brasiliani: "è meglio morire che perdere la vita").
Altrove,
la poesia di Voce mostra come la politica e l'ideologia siano la trama
sottile che tesse la quotidianità
nel suo
corpo a corpo con il linguaggio e con la fisicità della sequenza
respiro-suono-ritmo-parola
("l'erta
sonorità / del suono che pronuncia la lingua // la stringe alla
glottide al cavo / del palato e respira
in soffi
la voce"), all'interno della quale frammenti di un senso ormai pericolosamente
spodestato
dalla sua
gerarchica consequenzialità delineano orizzonti "aperti" di decodificazione
possibile a partire
dalle diverse
prospettive di lettura. E' quanto accade in Rorschach, che già nel
titolo laconicamente
richiamante
la matericità dei processi informali di un Burri, preconizza la
multidirezionalità di un percorso
scavato
nella viva carne di una parola sottratta al primato del logos e restituita
alla polisemicità
del suo
fluire in pura traccia grafica o phoné:
La
poesia è quest'intenzione d'andare / diritti al nocciolo e seguendo
tutti
i
sentieri paralleli insomma il digredire / che c'è nelle parole e
che fa mutti
la
poesia è quest'azione tutta di voce / questo risucchio di suono
su tema
è
questo dire krak splash tumf croce / su tutto ciò che c'è
e poi l'anatema
(da
Rorschach, n. 3, La poesia è quest'intenzione…, p. 27)
Gli
endecasillabi dei dodici sonetti che compongono Rorschach, trasudando "sapore
di sangue e sintassi",
esprimono
tutta la fatica del "sopravvivere o sottoesistere" in una sorta di wasteland
post-industriale in cui,
esaurite
tutte le spinte rivoluzionarie dell'arte e della ragione, l'individuo contemporaneo
si accontenta
di uno
smorto vivacchiare, all'ombra di "quest'immondo pateracchio // che chiamiamo
Ytaglia…" ("ma non c'è /
'na zione
né po' polo né rivo né luzione // né sole né
cantabile avvenire né / diverso sarebbe se esistesse
soluzione:
/per me e per i cuccioli alle soglie / solo cibo senza sale kalùmnia
e doglie.") Se l'imbestialimento
e la degradazione
nel mostruoso informe della barbarie sono il prezzo che paghiamo quotidianamente
per la
nostra presunzione di civiltà, gli esiti cui approda l'utopia transcreativa
di Voce sono singolarmente lucidi
nel loro
sviscerarsi con matematica consequenzialità dalle sue premesse ideo-logiche:
la tradizione finisce
infatti
per apparire vuota e sterile "sineddoche del passato", e la stessa nozione
di pubblico, come prodotto
di una
reificazione commerciale delle masse, finisce per coincidere con quella,
senz'altro meno tranquillizzante,
del nemico
da abbattere:
Nel
tempo che manca alla fine / sii didattico indica loro le rovine
che
restano di noi illustra chiaro / le ragioni irrefutabili dello sparo
pronominale
che li annienterà / nel suono estremo che esploderà
sii
compassionevole e strappa / loro infine dagli occhi la benda
che
consente chiedere ammenda / la sentenza recita che li rattrappa.
Ricordati
che sei con le masse: / è il pubblico il tuo nemico di classe.
(da
Rorschach, n. 12, E' il pubblico il tuo nemico di classe…)
Siamo,
con ogni evidenza, ai limiti violentemente estremi di quello che normalmente
si intende
per comunicazione,
la quale passa anche, in tempi di abbrutimento sistematico delle sue
precondizioni
esistenziali e semiotiche, per tali eccessi verbali e icasticamente gestuali.
E' appunto
a tale etica (e retorica) dell'eccesso, disperato e vitale a un tempo,
dentro e fuori il corpo
vivente
della parola, che ci seduce la poesia di Lello Voce, sicuramente da considerarsi
tra le
esperienze più stimolanti della scena italiana attuale.