Gianni
D’Elia, Sulla riva dell’epoca, Ed. Einaudi, pagg.132, L.18.000
Attento
alle vicissitudini della lingua, intesa come esperienza di un dettato entro
il quale
si
possa verificare l’implosione della metafora, al di fuori di ogni costrizione
temporale,
preciso
nel segnare una scansione metrica in terzine, Gianni D’Elia ci propone
una specie
di
diario in memoria della sorella Lina, scomparsa nel 1996 a soli trentasei
anni.
“O
è questa la riva dell’epoca vera,
in
questa morte medica alla cieca,
in
questa lunga malattia covata nera
e
all’improvviso rivelata e bieca,
lì
a tagliare la strada in impotenza,
con
tanta distanza tra sentenza HIV virale
e
esecuzione di condanna mortale,
mentre
l’anima col corpo si danna la vita
per
Sindrome da Immunodeficienza Acquisita
e
si dispera che il danno fu lo scambio
in
contagio di sangue o di seme navigando
da
siringa il flagello o da sesso fatto insieme
imprudenti
portando su di sé il proprio scanno,
seggio
isolato e grado da appestati,
banco
sommerso su cui frange il mare
dal
ventre dell’onda alla cresta del male,
riemersa
sabbia fino a soffocare tempestando
ogni
vivo che vi si venga a rovesciare?…” (pag.13)
In
equilibrio fra le leggi terrene ed il destino che spinge i sensi a voltare
angolo anche quando
non
lo si vorrebbe, D’Elia disegna sulla pagina una proiezione quasi eterea
o musicale, prolungatasi
nel
ritmo, forse a costruire un attimo infinito nella corposità del
finito. Ciò che riusiamo a salvare,
la
parola-corpo, la pelle-arsura, il distacco-reazione, il dolore-elegia,
con soffuso lirismo, propone
gli
elementi di tentazione a riscrivere gli approcci della vita, che saranno
poi il confronto non forzato,
non
patologico della nostra stessa storia, al di fuori del foglio tratteggiato.
“O
è il mondo che ronza per le strade
la
tua pastura? Il mondo, lì, quando accade,
mentre
t’invade in forma di natura
le
nari e i padiglioni della sua cura
scintillante
di spume o di lamiere,
di
tubi schioccanti da un’impalcatura,
di
calcinacci rovesciati da carriole in frane
lungo
condotti di plastiche arancioni,
o
nel rombato immoto dei motori in schiere
borbottanti
ai semafori nei fumi, acri di benzene
quando
il puzzle di fari e fanalini
si
riscompone ossesso in mille rivi
e
gli incroci inchiodati a braccia aperte
ripalpati
da migliaia di cerchioni
rifriggono
alla pioggia nei copertoni,
finché
non doppia il mare il rombo della statale
e
la burrasca rovescia sul litorale
i
frantumi che il mondo si ostina a buttare?…
Ma
tu sai il gorgoglio tra le scogliere,
quel
rigogolo da incanto del profondo, a riva
col
brusio dei passanti nelle sere
quel
suono di perdono che viene…” (pag. 31)
Grazie
al linguaggio poetico, qui usato in tutta la sua magmatica plasticità
del verso,
il
mondo intero riesce ad apparirci in una interpretazione sublimata, quasi
a confondere il senso
di
denuncia, la sibilante consapevolezza di angoscia, con una oralità
trasformata
in
catartica recitazione.
Il
ritmo, opera sacra dell’artigiano, trasmette le sue particolari tessiture
con un arcobaleno
molto
spesso e suggestivo.