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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Antonio
Facchin: La fanciulla di Delfi
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Il
poeta (e anche finissimo pittore), Antonio Facchin, già vincitore
del Premio Eugenio Montale
nel 1986
e già direttore delle Edizioni Amadeus, che hanno in catalogo versificatori
del calibro
di Bigongiari,
Ramat, Perilli, Scalise, e che hanno riportato la vittoria assoluta a premi
come
il Montale,
il Gatto, il Gozzano e che sono caratterizzate dall'eleganza della veste
tipografica
dei volumi,
sugella la sua validissima e importante, originale e sublime produzione
poetica,
con questo
splendido libro intitolato La fanciulla di Delfi, nel quale il suo dettato,
essenzialmente
e apparentemente
elementare, nella sua precisione, leggerezza e nello stesso tempo originalità,
tocca vette
altissime.
Dicevamo
originalità, impronta personale: in questo senso Facchin è
veramente autentico poeta,
quando
è vero che la poesia alta è tale quando il suo autore raggiunge
questo traguardo, l'inconfondibilità
dello stile
e l'icasticità del verso, mista a quella dolcezza, della quale ha
parlato Geno Pampaloni
a partire
dal suo "Il frutto che domina", che, come la produzione successiva, fino
a questo ultimo testo,
è
sempre tesa nella sua tensione verso la fusione con la natura, attraverso
due costanti che ne sono
espressione:
la figura femminile e l'arte. A questo discorso si connette la suddetta
dolcezza di Facchin,
che non
si nega all'onesto coraggio dell'oltranza, al brivido degli assoluti.
Ed
è proprio questa ricerca di assoluto, di una grecità attica,
quella del tempio agli dei che,
per una
maggiore fusione di fisicità e spiritualità dell'uomo con
la natura, veniva costruito in collina,
il dato
saliente di questa raccolta, organica, che nel suo inno alla vita, senza
la minima traccia di retorica,
si può
considerare un poemetto dedicato alla sua donna, nel quale l'ansia posmoderna
della globalizzazione,
della velocità
trova requie nel rifugio nel mito, si direbbe meglio nella poesia del mito,
che si riaggancia
alla realtà,
ad una sua forma dissetante, se è vero che Maser, terra natale del
poeta, è il luogo di partenza
con i suoi
colli, le campagne, amate anche dal Facchin pittore, di un virtuale viaggio
verso Delfi, Maser
della quale
Facchin riesce a cogliere il minimo mutamento, ogni visione o sapore o
sensazione, per compiere
dal suo
Veneto, dicevamo, un viaggio metaforico, sensuale e mistico fino alla terra
degli dei.
Come negli
altri libri di Facchin, qui la bellezza si rinnova e si celebra nell'abbandono
al cosmico abbraccio
(come di
lui dice Paolo Lagazzi), in quello sciogliersi nel corpo mistico
del mondo con la resa delle difese
strazianti
della mente fino a consumarsi, a bruciare nella luce, a diventare parte
della natura, in un anelito
ineffabile
che precede il dirsi di questa poesia nel non detto, per poi manifestarsi
nella fonte della parola,
dato di
una ricerca umana e poetica.
Leggiamo
nella nota che Facchin ha scritto al termine della sua opera (programmatica
nei suoiintenti):
-' Questo
poemetto è ispirato a quella che era la figura misteriosa, comparsa
in una città dove aleggiavano
i segnali
evanescenti degli dei. Un affresco, un repertorio cromatico, che mi attendeva
forse da millenni...'.
Il poeta
è quindi consapevole della fugacità del tempo, dei poeti
che l'hanno preceduto, dell'Assoluto
nella vita
e nella Bellezza:'- Una fanciulla ammirava il mare in solitudine, quando
apparve un Nimbo
e le chiese
cosa aspettava; lei rispose con dei gesti che lambivano una luce misteriosa'-.
Natura
in senso vlassico, dunque, ma qui anche romantico, mistero della
donna e del tempo:
-' Lei
aveva sentito la voce/ della verità che avveniva./ Quante giornate
da sognare/ la luce nascosta!/ Quanti desieri che incombevano/ nel luogo
prestabilito!/ I segnali nel mio libro,/ nella sua infinita voce; i suoi
ritmi che sono nati/ in me ora vivono/ e fanno vivere./ Ora accosta il
tuo labbro, sul mio, ancestrale/ distesa dell'antico sogno./ Gli avi hanno
pregato/ e hanno voluto la nascita/ e il compimento./ Tutto sia dato a
te, dunque,/ sposa della creazione/.
Con
i suoi versi brevi, tersi, luminosi, nei quali le parole si agglutinano
le une alle altre con rara maestria,
in una
poetica dove il quotidiano è assente, il poeta gioca la sua partita
senza incorrere nel rischio
di un cadere
nel vago o nell'impressionistico. L'esito è notevole nel cantare
la sua donna:
-' Mia
Regina, padrona assoluta/ del mio corpo e del mio spirito/.../Così
il menestrello è colmo/ del tuo Amore/ e canterà in ogni
luogo/ vicino a te eternamente sospeso/ nell'aria delle tue forme, nella
penombra di ogni tuo gesto, nell'intimità della tua bocca./ Mi apro
a te,/ servo del tuo amore/./ Per sempre/ il tuo amato/ Antonio./
Qui si
giocano accenti di lirica che potremmo dire trobadorica, di un'età
romanza intrisa di una vera e propria venerazione per la Creatura amata,
imprenscindibile e salvifica; da notare però che la donna non è
una figura
da Dolce
Stil Novo o una Beatrice o una Laura: nella stessa idealizzazione dell'amore,
non è questo il caso
di paradosso
trobadorico legato solo a coordinate di pensiero e di venerazione,che non
hanno riscontro
nella fisicità
della realtà, a prescindere dal fatto che l'amata sia in vita o
in morte: qui il rapporto amoroso
è
vero, tangibile e, tornando al discorso sull'antichità della Grecia
attica, si può sicuramente dire che questa
Regina
è una musa, figura ispiratrice dalla cui contemplazione, fuoco carnale
e spirituale, vengono fuori i versi.