1998-1988:
Un decennio in cui Adriano Spatola è stato come gli sbalzi di un'architettura
mentale, precisa, assestata in modo definitivo sulle proprie fondamenta.
Un decennio che scrivo a ritroso poiché è giunto il tempo
per noi di andare a scovare il vuoto che non siamo stati capaci di contrastare.
Un vuoto che ha cercato di contenere la mole del "grande codificatore"
(della nuova poesia, così lo definiva Luciano Anceschi). Ma basta
possedere ancora qualche brandello sensibile per capire che i suoi versi
escono da tutte le parti, che i suoi libretti (talvolta davvero tipograficamente
minimi) non sono mai scomparsi dai nostri scaffali e dai nostri pensieri.
Egli stesso si muoveva come un poema su cui l'aria nemmeno si avvicinava,
timorosa della sua volontà di azione, del suo essere aviatore senza
l'uso del cielo. Se Adriano disprezzava le nubi era per il suo grande attaccamento
alla terra e agli uomini, era perché egli aveva bisogno di un palcoscenico
che non decollasse. Le grandi architetture del secolo, per slanciate che
siano, non volano. Ma gli occhi di Adriano guardavano tutto, non si stancavano
di scrutare la partitura del mondo, e questo già dalla prima raccolta,
Le pietre e gli dei. Poteva definirsi meglio, in quel lontano 1961,
una vocazione tanto precisa, corpulenta, e inevitabile? Se guardiamo la
copertina dell'ultimo libro di Adriano, uscito quattro anni dopo la morte
ma del tutto definito, in precedenza, dall'autore, scopriamo che il ritratto
di Giuliano Della Casa non ci mostra affatto il grafico di una faccia,
ma l'immagine di un oggetto che pensa, defilato e stabile, per conto suo.
Vediamo l'architettura di un uomo che si è chiamato Adriano Spatola,
che in tutta la sua vita ha pensato alla poesia, scrivendola, montandola,
comunicandola (la propria e quella degli altri) con pirotecnica fantasia,
con gioia e disperazione, con altruismo e cinica conquista. Il ritratto
di Della Casa è un'architettura ritmica, forse uno "Zeroglifico"
postumo e a colori, capace di far maturare in noi la magia di un verso,
di un intero poema. E' così che siamo capaci, oggi, di un forte
desiderio di lettura, come al solito per nulla aiutati dall'editoria e
da una schiera di eredi che non sono in grado di allestire un volume che
comprenda tutte le poesie: personalmente non vedo quali difficoltà
dovrebbero esserci in una simile impresa, ma è probabile che - per
ragioni a me oscure - queste difficoltà ci siano e che il mio stupore
faccia sorridere qualcuno. Certo, il masso che Adriano spingeva (da Titano
qual era, così come amorevolmente lo ha ricordato Giulia Niccolai)
è ancora lì, ben staccato da tutto e da tutti, senza la minima
traccia di erosione. Quasi nessuno ha voluto decifrare quelle opinioni,
né in vita né in morte. Nessuno forse ha meritato l’eredità
rimasta ferma da qualche parte, perché nessuno ha potuto lavorare
nella stessa cucina. I più giovani battono altri lidi, li catturano
divagazioni pulp, martellamenti agonistici: in una parola, non possiedono
l'essenziale ribalderia. E così è già molto che alcuni
custodiscano gelosamente i principali libretti di Adriano, che vorrei qui
elencare, semplicemente per ricordarli ai lettori più giovani.
Le
pietre e gli dei, Tamari 1961
L'ebreo
negro, Scheiwiller 1966
Majakovskiiiiiiij,
Geiger 1971
Zeroglifico,
Geiger 1975
Diversi
accorgimenti, Geiger 1975
La
composizione del testo, Cooperativa scrittori 1978
La
piegatura del foglio, Guida 1983
Impaginazioni
(scritti critici), Tam tam 1984
La
definizione del prezzo, Tam tam-Martello 1992
Postilla.
Le pietre e gli dei, prima raccolta pubblicata da A.S., da lui poco
ben vista dopo l’avventura verbale intrapresa negli anni '70. Eppure credo
che non si possa lasciare orfana un'opera che contiene poesie come questa:
”Tu sai che peso fosse. / Nella nostra memoria muore il tempo / che caldo
dall'interno ci mutava. / Invano ci affanniamo a ricordarci. / La poesia
si fa negli anni / che la vita non conta, quelli / vissuti impreparati.
/ E dove andranno mai tante parole. / In una sua memoria favolosa / serba
la montagna / ciò che del futuro si farà passato.” Non mancheranno
spunti ancora più risoluti, nel futuro di Adriano, versi sedimentati
in una solitudine quasi incredibile, se considerata come spinta centrifuga
da cui sono nate le raffinatezze verbali inserite nelle decine di libri
curati, cuciti e stampati a Mulino di Bazzano. Ma "piegare il foglio",
"definire il prezzo", nell’ormai mitica località lungo il fiume
Elsa, sono state le azioni più lucidamente riportate nella complicata
realtà dello scrivere versi.