Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

DLe pietre parlanti di Voronez
di Elio Grasso


per Osip Mandel'stam
 
Già in una poesia datata 1911, scritta a vent'anni, Osip Mandel'stam imposta una curva verso la notte, seguendo le tracce apparse fra le pietre del suo cammino (la prima raccolta ha per titolo, appunto, Kamen', "Pietra"). La necessità di far apparire un raggio di luce nella polvere, nel turbinio esistente alle spalle del mare - sia esso il Mediterraneo o il Mar Nero - e di scoprire in quel vento le origini della poesia, la vita furiosa degli uomini e degli dei, diviene per lui un atto di resistenza di cui non può e mai potrà fare a meno. La necessità dell'opera d'arte di definire la logica di un'esistenza sta davanti a molte altre cose che, apparentemente, sembrano di maggior peso, e di queste occorre liberarsi subito: da qui l'impulso giovanile ma determinato di spingersi verso una consistenza diversa dal giorno, diversa da ciò che gli occhi vedono immersi nella luce, e d'interrogarsi subito sui suoi rapporti con essa. Egli si rende conto della fragilità di questi rapporti, della consunzione che avviene ogni qualvolta una lingua si confronta con la natura delle cose, andando a sbattere contro il tempo. Lo stesso Brodskji ci ha detto che il tempo, essendo già tutto dentro la poesia, avvolge l'intera prima opera di Mandel'stam, che anzi mai egli provò a tenerlo, ad amarlo per un attimo di bellezza o d'ispirazione. Se il tempo è artefice di un'esistenza che ci travolge, non si potrà far altro che venire travolti. Tenere gli occhi bene aperti e la mente sgombra è un'impresa, ma è anche quanto un poeta deve disporre con il mondo, nel corso dei suoi anni di vita.

Il moto apparentemente disordinato delle stelle e la visione di fanciulle "notturne" sono per Mandel'stam ciò che il tempo attua, rendendo sovrassaturo il presente, e ormai imprendibile tutto il resto, passato e futuro. "Sento segnali dalla fortezza", segni che intaccano fortemente la predisposizione per le parole, e, prima di questa, lo stesso approccio vitale. La città - Pietroburgo - ancora non nasconde del tutto il cielo, la città contiene le donne con i loro movimenti armonici: sopra ogni cosa, nello spazio, le stelle. La voce dà significato, dà la forza fisica che permette, quasi inconsapevolmente, di creare e di resistere.

Se oggi possiamo leggere Mandel'stam che si affaccia dalla Nevskij Prospekt come un cantore della modernità - lui fervido classicista -, come chi ha "imparato la scienza degli addii" ancora prima che le polveri roventi si fossero posate, è proprio perché, già nei suoi primi scritti, leggerezza e pesantezza si fondano nel quasi unico modo possibile di rendere lo spirito del secolo e della sua fine. E' come se la gran quantità di cose viste, assorbite - da esse attraversato -, gli avessero presentato davanti agli occhi la visione di una terra divenuta posto definitivo, definitivamente congelata dal potere distruttivo delle razze. Il disordine di Pietroburgo è il caos di New York, qualcosa che prima non esisteva e che poi ha decretato guerra alla bellezza classica, alle origini. Il ritorno ad una cupola protettiva, alle fonti elleniche della civiltà, pur attuato da Mandel'stam e da altri spiriti liberi dell'Est, non è altro che il tentativo - destinato a fallire - di darsi una salvezza, o almeno di procurarsi fiato. Esistenza psichica e fisicità non vanno mai d'accordo: il compromesso a cui giunge un uomo che ha creato un mondo separato e quasi a tutti estraneo, è in qualche modo anche la sua condanna. Ancora Brodskji scrive che la sorte di Mandel'stam non sarebbe stata diversa se la Russia avesse avuto un differente modello politico e quindi storico. Questo appare tanto più vero se pensiamo un attimo agli eventi accaduti dopo la sua morte, avvenuta in un lager nel 1938.

Egli riconosce, già in alcuni scritti pubblicati a partire dal 1921, come la poesia del suo tempo avesse ancora bisogno dei classici storici, e come nelle altre lingue dovesse ancora nascere un poeta come Catullo. L'ansia di riassumere in un verso, in una strofa, il mondo che lo circondava, traendone complessità e strutture, lo porta a credere che qualcosa debba ancora avvenire, anche nella ripetizione di forme antiche. Essere convinti che Baudelaire sia un grande esempio di disperazione cristiana indica quanto Mandel'stam abbia creduto quasi eccessivamente alla parola che vaga libera intorno alle torri della modernità. Bisogna dire, però, che è proprio in questi paraggi che avviene quello strano fenomeno da lui chiamato glossolalia, attraverso il quale i poeti parlano le lingue di tutti i tempi, di tutto il mondo, seguendo un'infinita possibilità. Un'ingenuità che ha contribuito alla caduta delle idee? Forse, così come è probabile che dall'inizio del secolo mai come oggi la gente non sappia che farsene dei poeti. Tutto ha cominciato a formarsi allora - il nostro secolo non ha forse fatto scaturire una Terra desolata?

C'è una fuga e un ritorno in tutta l'opera di Mandel'stam, al cui interno si consumano le forze lasciate agire nelle parole, prima ancora che nei concetti, nelle aspirazioni a cui è legato il poeta. Prima dell'interlocutore, si meraviglia chi si è portato fra le braccia di una terra ricolma fino al sacrificio di parole. Le stelle in alto scendono come mai prima, fino a rendere - contrariamente alle aspettative - ancora più scura l'acqua della botte, l'acqua sparsa sui campi e l'acqua che scende dai rubinetti di Pietroburgo. Proprio il veto posto sulle poesie, fin dal 1923, esalta il corpo estraneo che si aggira per le terre russe, il cui pensiero prende una forma sicura in saggi come Sulla poesia del 1928 e Discorso su Dante (datato intorno agli anni Trenta). Incroci del processo poetico e della vita che vanno incontro a un maestro come Dante per tornare ancora una volta alle sonorità antiche della propria terra, della casa. Casa che gli sarà negata al ritorno dal viaggio in Armenia, costretto a restituirsi alla "Mosca buddhista" ("Ma prima ho avuto il tempo di vedere il monte Ararat..."), come un esiliato, come una persona scomoda di cui si aspetta la morte.

La poesia di Mandel'stam procede per accumulo, quasi inconsapevole, di punti tematici, di passi che non possono fare altro che andare contro gli aspetti vitali, se non politici, dell'attualità russa di quel tempo. Le sue valutazioni si tengono dentro la rivoluzione, proprio per questo verranno fermate fin sul nascere. Il suo cantare, da errante cosciente, rende le cose e il paesaggio, forse le genti, al loro nucleo originario, andando perciò contro la legge, pensando perciò da vero ebreo pastore, contro l'immobilità del potere. Dobbiamo alle memorie di Nadezda la conoscenza della luce e del buio presenti nell'opera di Mandel'stam, mettendo allo scoperto i lati riposti della biografia di un uomo, quanto ne dispiega le forze e quanto può abbatterlo. Il colore degli steli d'erba sulle strade di Pietroburgo sono tanto importanti quanto la memoria che egli conserva negli scritti, lasciando che tutto si trasformi, nel tempo, in qualcosa di operoso, in qualcosa di irrinunciabile. Erano "del suo mondo" il fruscio dell'erba e la confusione delle strade, il desiderio di poeti non superati dalla ripetizione e una verità che fosse comune. Di una sovrapposizione di strati, di un rafforzamento progressivo dovuto ai grandi poeti fin lì meritati, si fa carico Mandel'stam fino alla morte, festeggiando, con suoni e parole, quasi in ogni nuova composizione, l'onore che queste figure gli assicuravano.

Il pensiero di Mandel'stam procede nel tempo, scavalca la grande sosta dei cinque anni di silenzio poetico, con il viaggio in Armenia e l'avventura verso il proprio Mediterraneo mentale, culla di vita che include come ultimo avamposto anche la Crimea e il Caucaso. La poesia ritorna e con essa il moto accelerato di uno sguardo che non si accontenta d'indagare ma tenta di scoprire nuove forme di linguaggio, nuove forme che trascorrano bene la loro presenza, dall'istante in cui è avvenuta la loro creazione. L'inatteso di cui già scriveva nel 1913 è la stessa aria della poesia, l'insistenza del pensiero verso ciò che si conosce per scoprire al suo interno quanto non si conosce. Egli va verso l'essenza così come è capace di rileggere Puskin, Baudelaire, Ovidio, credendo sinceramente che l'uomo abbia perduto per sempre la propria casa. Nel suo secolo, che è il nostro, sono nati i "disegnatori del deserto, i geometri delle sabbie mobili". Con il Discorso su Dante, Mandel'stam ci mostra la vera civiltà della poesia che crea incroci, portandoci a bivi che non sono soste forzate ma rilanci miracolosi dell'attività umana. Una veglia, uno scuotimento che scaturisce dalla poesia, così come la stessa diviene il tessuto palpitante dei Quaderni di Voronez, pagine sempre in sospeso fra il risveglio e la perdita, pagine scritte con l'animo perfettamente cosciente della fine che sarebbe avvenuta nei decenni successivi: partendo da quel fatidico anteguerra per giungere all'altrettanto fatidico finale di secolo che oggi appartiene soltanto a noi.


Indice recensioni e note critiche
La realizzazione informatica della rivista è curata da Dedalus srl
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare:
Emilio Piccolo e/o Antonio Spagnuolo