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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Carmelo
Bene: ‘l mal de’ fiori
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“Noi non
ci apparteniamo E’ il mal de’ fiori
Tutto sfiorisce
in questo andar ch’è star
inavvenir
Nel sogno
che non sai che ti sognare
tutto è
passato senza incominciare
‘m in questo
andar ch’è stato”
Costruire
l’equilibrio della scena ed in essa aprire il foglio bianco dell’afasia
per far scivolare, maestro dell’immaginazione e della voce, ogni frenesia
dell’onirico, ogni alternativa dell’inconscio, ogni falsificazione dell’agguato,
riuscendo a superare ed a nascondere la voragine dello
insidioso silenzio che avvolge il pensiero.
Per sottolineare
in contrasto (amichevole e sottomesso) un passo della esaustiva e dotta
prefazione di Sergio Fava, il quale cerca di collocare a distanza incalcolabile
i testi di Carmelo Bene da quelle che potrebbero essere le matrici filosofiche,
o psicoanalitiche della poesia contemporanea. Ma quale più
dichiarata e dotta elaborazione del sogno, dell’indicibile, poiché
parola non ancora compiuta o strappata allo stato amorfo della nostra esperienza
preconscia, questo poema che aggruma nelle sue pagine gli enigmi del delirio,
le fantasmagoriche esplosioni degli idiomi, le gemme delle sottrazioni
verbali, la beffa del preannunciato e del non servito?
“Dormita
muovi eretta
sopravvissuta
a messa
principessa
dell’ombra
d’automa
Controluce
ebano Svesti
una ad
una le pagine fiabesche
delle trine
dei nastri sottovesti
le pagine
mai scritte che innevate
s’accucciano
ai tuoi piedi
in venir
meno accanto l’irreale
tuo ch’è
letto Dipinto Non è dato
a morte
giovinette semoventi
il giacere
Divieto è sognare
venture
incerte peggio se foriere…”
Nulla viene
deturpato dall’avidità della quale gli uomini imbevono le ansietà
o le angosce del sogno, per abbellirne il godimento nelle differenze, nelle
incapacità, nelle difficoltà di attingere esaltazioni
e suggestioni.
Carmelo
Bene riesce con le sue soluzioni, orali o verbali che siano, a dissolvere
gli impatti della memoria con la negazione del ricordo, nel mentre la parola
si staglia nel suo principio fonico, per divenire nella purezza della scena
il corpo che riferisce se stesso.
“Noi che
morimmo in viver la tormenta
marcescente
bellezza guasta eterna
della seconda
sinfonia di Mahler
Noi più
non siamo in lacrime di Tennyson
non più
sublimi ‘mporta che? Più mai
risorgeremo
Inanimati spettri
carcasse
– levigate al par degli ossi
di seppiaccidentacci
a che?-
Ce vers ça s’on l’aime
il faut
le détester
Cenere in urna
a non adieuxmercoledì
fidatela
La sollevate
piano pietoso no non come
ignota
salma ofelia “perché è stata” una “donna”
in Thomas Hood
questa
la quiete ‘n polvere di sera
sollevatela
senza toccarla
poi che
non fu Al capriccio la fidate
d’Anassimene
all’ (anima chè l’) aria”
Verità
e distruzione, possibile e presunto, certezza e catastrofe, affiorano da
questa profondità ed esprimono la quasi totalità del pensiero
al di là del raziocinio e dell’io cosciente, e se l’incoscio è
il luogo della poesia la poesia è legata all’inconscio per
quella inesauribile volontà di ri/sistemare la condizione umana
sopravvissuta all’espressione comune.
Qui ci
viene incontro il travolgente parlottio del dialetto, in una crescente
foggia visiva, promettente ed ineguagliabile in ogni sua stile. E se da
un lato, con influssi od offerte fondamentali, potrebbe screziare
lo spessore del dettato, dall’altro esalta il cromatismo soffuso nel testo,
mai scompigliando l’ordine e la saldezza formale.
L’enigma
della natura umana nasce dall’incapacità di raggiungere la totalità
dell’esperienza: il doppio appartiene alla contraddittoria valenza dell’irriducibile,
dell’insondabile, dell’impotenza, ed è qui che il simbolo diventa
parola reinventata, mostrando l’importanza della sua eco.
“Tremulo
a fior di labbra
in lor
dischiuso é solo il che sfiorir
stinto
desensuato…”
“La rigorosa indisciplina del poiein-prattein di Carmelo Bene – scrive il prefatore – è ormai universalmente consacrata, nella sua accezione interdisciplinare (teatro, musica, letteratura, cinema) poesia.”