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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche La parola
poetica di Elio Grasso
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E'
terra la sottrazione
all'esercizio,
alla ricerca:
aspra
nella parola, mai placata.
Unito
a quei resti
sei
compagno, salvo nel grido".
Questi versi,
tratti da Nel soffio della terra, non chiedono di essere compresi né
per il paesaggio interiore che descrivono né per le emozioni che
suscitano. Sono costellazioni di parole che ritrovano una loro armonia
nel trobar clus della sintassi che le collega. Si potrebbe azzardare: è
un'armonia musicale. Ma la "musica" della poesia grassiana è molto
particolare: non suggerisce nessun strumento adeguato, come l'Arte della
fuga bachiana, e non vibra di accenti definibili. È leggera, ipnotica,
quasi insonora; un unico timbro, modulato ad altezze diverse, come, in
una celebre parabola zen, il suono prodotto dall'applauso di una sola mano.
In questo
universo, che conosce anche troppo bene le complesse strategie della simulazione
e della dissimulazione, il poeta usa la parola come un pittore cinese tratterebbe
il segno grafico: mostrandone la bellezza pittorica e nello stesso tempo
l'irrimediabile vuoto di senso. Le sue sequenze hanno spesso una movenza
pittorica, come lievi contrasti in bianco e nero, come nuvole tracciate
su fogli di carta di riso. E dire che siano nuvole è già
un azzardo, un'immaginazione del lettore. Si tratta, probabilmente, solo
di alcuni vapori nel bianco, di segni neri fissati nel candore del foglio.
Come in una partitura di John Cage, il testo di Grasso è seriale,
e tende a non terminare mai. Si articola in frasi brevi, modulate con parole
diverse, ma dove ogni frase sembra continuare la precedente o la successiva
in un rispecchiamento interminabile e naturale, mai favoloso.
E allora,
cosa possiamo aggiungere, di più chiaro, su questa poesia di così
"oscura" chiarezza? Forse nulla. Ma un sospetto rimane: che dalla tela
di queste parole, gettata come un sipario davanti ai nostri occhi di lettore,
da questa rete di versi che il poeta ci consente di leggere, noi possiamo
intravedere righe invisibili, che scaturiscono dalle maglie della rete,
volente o nolente l'autore: e queste righe ci parlano di un diario intimo
che ha le connotazioni elegiache dell'io lirico piuttosto che il tragico
sapore di un viaggio agli inferi. Così testimonierebbe almeno il
volume di poesie e prose, La prima cenere - Conservatori del mare (Edizioni
del laboratorio, 1994). La pacata e cristallina struttura formale de La
prima cenere si rivela, nel testo successivo, come un "sogno della forma",
un miraggio fatto di parole ipnotiche e svianti, nel quale si insinuano
immedicabili ferite di cui non si può più tacere. La "parte
oscura" di questo miraggio è il diario privato e tenerissimo che
il poeta ha sempre voluto scrivere ma che aveva nascosto in un edificio
di parole, subdole, deliziose, astratte, come in un arazzo che ora è
diventato trasparente. Trasparente a qualche verità? E a quale?
Non potremo mai saperlo del tutto: possiamo intuirlo, se sappiamo viaggiare
dentro e intorno alla stretta trama di parole che il poeta ha annodato
e annoda attorno al suo discorso, per nasconderlo e rivelarlo.
In passato,
pensando alla poesia di Elio Grasso, non si poteva evitare un pensiero:
che la topografia del suo universo - quella foresta di parole legate da
equazioni misteriose e analogie improbabili, come efflorescenze di un ignoto
corallo - altro non fosse che l'universo consentito da una rimozione: e
che, dietro lo schermo di quella rimozione, si nascondesse la verità
elementare della sua poetica. Ma vero e falso coincidono ineluttabilmente,
nel linguaggio della poesia, e lo schermo e l'oggetto nascosto, come nel
caso del Capolavoro sconosciuto di Balzac, ci rivelano entrambi ciò
che deve essere detto. Il panno che il pittore Frenhofer getta sulla sedia,
a coprire la sua tela bizzarra e incomprensibile, è l'opera stessa,
insieme all'opera che nasconde.
Il mondo
poetico di Grasso è un universo verbale levigato e astratto, dai
toni spesso sentenziosi e descrittivi, solo che le sentenze non sono applicabili
a nessun pensiero e le descrizioni a nessun paesaggio. E così il
lettore si trova preso nella rete di sequenze sintattiche che non lo rimandano
a nulla di sensato, di consolante, di "poetico". Non gli servono a niente
e, dopo la lettura, non ne ricorda nessuna. Resta meravigliato, certamente
perplesso. Il chimico combinarsi delle parole è stato futile, come
un esercizio zen, ma è stato giocato fino in fondo. Fin dall'inizio
della sua ricerca, rinunciando ai clamori emotivi del dettato poetico e
alla sua retorica espressiva, Grasso si è inventato una personale
res poetica, e attraverso le combinazioni del linguaggio ha creato una
collana di preziose "gemme" sintattiche, fascinose come talismani, misteriose
come amuleti, indecifrabili come iscrizioni di un totem. In sintesi, utensili
inservibili di un gioco che ha dimenticato il suo demiurgo. Il "senso drammatico"
di questa poesia è chiuso nella sua impenetrabile perfezione formale:
più la forma è levigata e il sogno del testo si consuma interamente
nelle parole che intesse, costruendo la "fortezza vuota" del proprio incantesimo,
meno la poesia ci parla del taciuto, di ciò che resta dietro la
fortezza e che è stato finora volontariamente eluso. Ma, dove il
sogno della forma si smaglia, dove trapela un'esitazione, una fessura,
un frammento di "sentire", allora questa poesia ci svela che "Tutti i soffi
dimorano nelle crepe" e che "È stato aperto quel fondo / e colta
l'insidia nel proprio pugno / simile al buio che l'uomo immaggina"