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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Ada Negri:
I Canti dell'Isola
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Nessuna
isola al mondo forse è stata più di Capri frequentata dalla
letteratura e dalla poesia.
E bene
hanno fatto le Edizioni La Conchiglia a ripubblicare i Canti dell’Isola
di Ada Negri (1870-1945)
con una
bell’introduzione di Elio Pecora.
La prima
edizione dei Canti risale al 1923.
L’Isola
è stata “riscoperta” in quegli anni da Marinetti e dalla brigata
futurista.
Enrico
Prampolini espone 24 tele che valgano come “ricostruzione futuristica di
Capri” e tutta l’isola sembra in balia del credo avanguardistico. Ada Negri
si mantiene al di qua delle suggestioni marinettiane, semmai guarda ancora
al D’Annunzio di Alcyone, ma con esiti originali
e di grande
“fisicità”. Dice Elio Pecora: “Nell’isola [Ada Negri] tocca il suo
stesso corpo; v’intende
la sua
stessa esistenza come alternanza di paura e di ebbrezza, di lutto che acceca
e di canto che medica, consola”.
La prima
raccolta di poesie di Ada Negri risale al 1892.
1. Il
mare azzurro
2. L’offerta
delle rose
3. Notte
di Capri
4. Il
pergolato di glicini
5. La
sofferenza
Ho male di luce, ho male di te, Capri solare.
Oh, troppo bella, oh, simile all'onda sul capo del naufrago.
Ma forse ai miei occhi non sei che un raggiante capriccio del prisma,
una dorata nuvola emersa dal fiato del mare?
No. Sento il tuo cuore che vive, che batte, in un cavo di roccia
del Pizzolungo; e guardia dal mare gli fanno i Ciclopi
che mai non conobbero il sonno; e dal monte le lance
dell'àgavi, e, immote, da torri di rupi, pupille di falchi.
Guizza ancor lungo i fianchi dei tre Ciclopi, e sfavilla
la lucertola azzurra che nacque al tuo nascere, o Capri.
Sacra al tempo, ella è maga, sovrana del sortilegio glauco.
Perfida come l'acqua che intorno agli scogli in cristalli
multisplendenti s'indura, dissolti da un tuffo di remo,
s'io l'afferro mi sfugge e m'irride, lasciandomi agli occhi il barbaglio.
Azzurra è la tua follia, Capri, nube del mare.
Azzurro il canto eterno di che tu colmi i cieli.
S'io debba
morire di te, dammi la morte azzurra.
Chi fu mai, che dall'alto del muro mi gettò tre rose vermiglie?
Miravo, passando, il rosaio scalare il muro come un amante
dai mille cuori per mille amori, cuori malati di troppo sangue:
ed ecco, una mano dall'alto mi gettò tre rose vermiglie:
per la fede, per la speranza, per la gioia che ancóra non so.
Fanciulli dell'Isola, in grazia, cercate per strade, per boschi, per campi
colui che dall'alto del muro mi gettò tre rose vermiglie:
conducetelo a me, ch'io lo veda, e gli dica ch'egli è mio fratello:
e mangi
con lui pane intriso di sole, e beva acqua di libertà.
Così basse le stelle sul capo, che par mi vogliano incoronare.
Se alzassi a pena - per gioco - la mano, forse le potrei toccare.
Ma non ho forza d'alzar la mano: l'aria sa troppo di rose bianche.
Rose e stelle si guardano, fisse, con occhi immensi di donne stanche.
C'è così poco fra loro: un po' d'aria: solo un po' d'aria; e non posson baciarsi.
C'è così poco fra me e te: un po' d'aria: solo un po' d'aria; e non posso baciarti.
Tu sei nascosto; ma la tua vita chiama nell'ombra i miei sensi veglianti.
Il mare
è nascosto; ma il suo respiro empie la notte di tutti i miei pianti.
Solaria, il vento del sud scrolla e devasta il tuo pergolato di glicini.
Ne piombano a terra i corimbi, chicchi violetti
di grandine, pesanti d'un peso di morte.
Così a te traboccan dagli occhi, nell'ora del torbido amore, le lacrime;
ma non si
raccoglie il pianto d'amore, non si raccolgono i fiori caduti del glicine.
Non credevi soffrire così donna ancora così,
col torbido cuore pesante entro il torbido corpo.
Con la certezza che il male è senza rimedio, e quasi ne godi.
Con lo spavento che altri lo sappia, e ti possa irridere.
Oh, tanta vergogna ne avresti, che meglio esser morta.
Ma - o donna - orgoglio è in te di soffrire ancóra così,
perché un tale dolore è dolore di giovinezza:
e tu sei
pronta alla morte: alla rinunzia, no.