1. “Ogni
perfezione va distrutta” (Improvviso e dopo, Anterem, Verona 1997).
Ma i nuovi testi (Quattro
quaderni, Zona, Lavagna 2000) hanno anche grandi fasi di perfezione:
la costruzione del libro come
struttura di strutture (quattro quaderni annuali, trasformati in quattro
quaderni non cronologici, che
producono i “quartetti”); la volontà metrica arcaica, con sequenze
di piedi (ad esempio, i giambi
e i trochei, con un dattilo, dell’inizio apparentemente semplice
del Quarto passaggio:
“e dopo questo suono, dopo, / dopo torna // come se nulla fosse, suona,/
suona
ancora / [e fa le bizze, scalcia,
/ muove l’aria]). Forse la poesia segue il mondo “pieno di occhi” (p. 26),
con inserti di prosa o quasi.
La parola laica enuncia e crea la musica e la simmetria: il “modo
di comprendere” dell’inizio (p.
13) prepara quello del Passaggio di Santiago (p. 25 e poi a p. 26:
“se c’è è come
se non ci fosse / modo di comprendere. / anche non comprendendo, vedete,
/ non c’è
modo di accettare”); la prima
parola del libro rima con l’ultima (“questa”: “resta”). Ogni simmetria
è
(anche) ricerca di “perfezione”.
2.
La forma-libro ha accolto la nostra frammentazione: o quello che l’autore
decide di chiamare
“frammento”.
Questo anche quando la nuova scrittura di Mesa vuole essere fortemente
auto-riduttiva
(versi
sempre più brevi; anche versi isolati: “tutto che se ne va verso
quel buio” [IV.6]; semplificazione
del
vocabolario, incontro ad un parlato ritmico: “e poi? poi che faremo? faremo
tardi?” [III.1], “[un
suono
/ questo dopo // questo / e questo basta]” [IV.1]; “ridici / resta fermo,
/ ecco che arriva
questo,
/ tempo, / dentro e fuori” [IV.7]). Lo stesso effetto in uno spazio di
critica-poesia volutamente
aspro,
contemporaneo al periodo dei Quaderni (cfr. Parole e parentesi,
comunicando, in “Versodove”
9-10
[1998]: “Allora? Tacciamo? Se cominciassimo a tacere? Ma se tacessimo chi
ascolterebbe
il
nostro silenzio? Se non parliamo le parole, allora facciamo il fare? Parlare
è fare? Di quale fare stiamo
parlando?
Che cosa fa la poesia? Fa? Vuole fare?”).
3.
Riducendo, cade la ricchezza. Il non-finito (l’apparenza del non-finito)
porta al non-perfetto
l’apparenza
del non-perfetto), quindi ad un’auto-anarchia: ma ora la riduzione è
carica di un altro sapere,
che
è tecnico (cfr. il punto 1): a suo modo, una forma di ricchezza,
virtuosa e sottile. Tutto questo è già
nel
rapporto tra “improvviso” e costruzione di “dopo” (vera “formattazione”
dei fragmenta, incontro
ad
un progetto di libro, che è il Senso del percorso di vita e di ricerca;
l’improvviso – “cuore” e “voce” –
usciva
dal corpo e in qualche modo rispecchiava ancóra il corpo): il libro
e l’articolazione in Quaderni
e
Quartetti rigorosi sono “struttura” (“un arbitrio, una hybris,
una volontà, nefasta, di monumento / un’epidermide artificiale su
un corpo scorticato”): l’improvviso è una forma ibrida, a metà
tra la non-forma
e
la fissità. Anche “l’organismo” vivente “si trova a metà
strada fra qualcosa di informe e qualcosa di intero
ed
esteticamente compiuto. Questo suo essere diviso a metà deriva dal
fatto che, sebbene noi ce lo
figuriamo
staccato dall’ambiente (nella misura in cui percepiamo una persona dal
punto di vista estetico),
in
realtà sappiamo che non può essere separato [da esso fino
in fondo]”; soprattutto, “attraverso
le
sue funzioni un organismo” – ma anche il testo isolato e “improvviso” –
“si estende al di là dei suoi
stessi
limiti” (Pavel Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi,
Milano 1995, p. 255: 5 dicembre 1923)
e
forma, in quanto testo, “quaderno”, “quartetto” e “libro”. Il pezzo non
è pensato ma esiste
con
caratteristiche già formali: “[ombra, che è un’ombra, / che
la forma si forma / come ombra di sé]” [II.11].
Nel
singolo testo, l’impoverimento è contrastato dalla ricchezza della
prosodia; nell’insieme, la povertà
di
ciò che vuole essere immediato (non meditato, non forte, non risolutivo)
è contraddetta dalla meticolosità, matematica e musicale.
Cfr. anche la Nota ai testi alla fine di Improvviso e dopo.
4.
Il tempo dei singoli improvvisi è separato e misurato (“le date,
i luoghi, le dediche” in appendice
e
non in calce ai testi; come la datazione a parte delle poesie di Sanguineti);
il tempo del libro formato
è
unico e posteriore allo sforzo di fermare i tempi e disperdere sé
negli “improvvisi”.
5.
Esiste una sensibilità che scioglie il lavoro già fatto per
rispettare la vita in sé e la propria (parziale,
ma
non banale) vita nuova di ora (vita diversa). Chi ha potuto leggere la
prima forma, inedita, dei Quattro quaderni insieme alla seconda,
che è stampata, lo può capire. Il lettore pensa: il rapporto
arte-vita è
immaginario
e rituale: corrosivo in quanto immaginario e rituale (cfr. il timore dell’amico
di Usher, narratore:
“I
could not help thinking of the wild ritual of this work, and of its probable
influence upon the hypochondriac”; nella traduzione di Baudelaire: “Je
songeais malgré moi à l’étrange rituel contenu dans
ce livre et à son
influence
probable sur l’hypocondriaque”). In quanto immaginario e rituale, non esiste
veramente
(cfr.
il punto 11, sotto); ma l’energia interiore che è in gioco lo rende
‘reale’, umanamente e mentalmente:
lo
stesso sforzo emotivo fa immaginare un “dio” e – dopo averlo immaginato
– lo fa amare, in quanto vero
e
vivo: in questo caso lo sforzo del cuore tende ad una Persona – Dio – e
non ad una Cosa, che è il “testo”
e
il “libro”).
6.
In alcuni testi il nero e la fine si sono incarnati in immagini pesanti,
anche di horror (cfr. le varie mutilazioni
e
parcellizzazioni del corpo in Improvviso e dopo; ma la ‘bruttezza’
viene salvata dalla sua organizzazione immediata in un progetto da realizzare:
cfr. – ad esempio, nella loro esagerata bruttezza – le Nove macchine
morte di i loro scritti, Quasar, Roma 1992; ma nello stesso
libro c’è almeno una parcellizzazione con ‘grazia’,
prima
di tutto ritmica: “non puoi. E non dici, come si aprono gli occhi, / e
le mani, come si muovono
lente,
/ le unghie, come iscuriscono, premendo le tempi, / gli occhi, come vedono,
le pietre striate
di
rosso, / e in alto, che scorrono vento e salsedine, / che il guscio degli
occhi, un feltro…”; cfr. anche
il
pensiero di Mesa su Elisa Biagini, in “Versodove”, 11). Allo stesso modo
– in un altro spazio – si legge:
“questo
blaterare semietilico, in una notte nubìfraga, in un ennesimo autunno
di silenzio, fra innumerevoli
vite
che muoiono anche di silenzio, poiché nessuno che dice le ascolta,
tutti presi a comunicare la propria
identità
comunicazionale…” (Parole e parentesi, comunicando: qui – forse
– la debolezza della visione
è
nel montaggio brutale del tragico sul tragico, senza mediazione e senza
soluzione. Né la disarmonia può
–
qui – diventare la “grazia incondita” che Testori ha amato in Bacon. Il
problema – e la differenza –
si
gioca intorno a un lavoro del ‘bello’ stile). Come antidoto al buio, esiste
l’ultima pagina di Simile e
dissimile
di Šklovskij (evocazione di Venezia e dell’áncora; di Leningrado
e di Manuzio): non esiste fine.
Il
libro sarà “gaio” e non “triste”.
7.
Il corpo è prâgma: la scrittura (la poesia) è
“evocazione” (Pasolini, Empirismo eretico).
Il
corpo-prâgma è vero. L’anima-prâgma è
vera. Il corpo scritto è scrittura: arte. L’anima scritta è
scrittura.
8.
Parlare del corpo non è automaticamente materialistico, ‘comunista’,
ecc. Intorno al “materiale”
fioriscono
– letteralmente, fioriscono – la novità e il miracolo.
9.
La lucidità permette l’abbandono totale.
3-19
luglio 2000