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Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Luigi Durazzo: Poesie del Mediterraneo
di Raffaele Piazza



Luigi Durazzo, Poesie del Mediterraneo (Terra Murata e Sole Maestro)
Edizioni Valtrend, Pozzuoli (Napoli), 2000, pag. 61

         Poesie del Mediterraneo, scandito nelle sezioni Terra Murata e Sole Maestro, è un testo poetico, nel quale, come fatto da prendere come primo dato acquisito,  forse come premessa, certamente come primo livello, c’è il dato incontroversibile di un forte rapporto dell’autore e della sua materia con il dato geografico; un posto di mare, forse un’isola, elemento centrale che suscita le occasioni per uno spaesamento, per una memoria vissuta nella consapevolezza, memoria che vive anche nel presente e proiettata verso il futuro: quello che traspare dal discorso organico di questa poesia è che non esiste, per Durazzo, il luogo, ovviamente mediterraneo, come rifugio, potremmo dire microcosmo pascoliano; il suo versificare, la sua tensione, trova nella magia e nel fascino del posto, un punto di partenza per riflessioni che tendono a quello che c’è fuori, un modo della poesia e della vita, per uscire allo scoperto e mettersi in discussione.

         L’identità con il luogo geografico, naturale nella sua bellezza, provoca anche uno scatto e uno scarto memoriale, il senso di un tempo mitico e immutabile, di una ricerca che è anche di poetica, di una dimensione di cronotopo, dove il tempo (non quello degli orologi), quello immutabile, continua ad abitare i luoghi che risentono dei danni del progresso, come pure del suo intrigante modo che ci consente, a volte, di cambiare in meglio la nostra esistenza, anche se spesso il passato viene rimpianto con un senso di perdita: questo intenso senso di perdita, oltre alla nostalgia di un’età antica e mitica, ci porta anche a rimpiangerne quel sentimento di fusione con la Natura, il silenzio profondo, una vita a misura d’uomo, il cui armonico cerchio si chiudeva giorno dopo giorno secondo i ritmi più armonici: quello che va a sommergere non solo l’uomo di questa “terra”, ma anche tutti gli abitanto del nostro tempo è, come già diceva Pasolini, il logos del dominio e dell’omologazione. Come dice Giovanni Pugliese nella prefazione:-“Il mondo era immenso proprio nella contiguità vissuta degli apazi, pieno di una vita divenuta ora movimento disarticolato e frenetico, nervoso inseguimento di ciò che annulla la Natura in ogni vivente”.

         In questo testo è esplorata la dimensione dell’errare, in un proiettarsi verso i limiti geografici: è un riflettere senza viaggio effettivo fisico, ma solo con il pensiero e la parola da un osservatorio privilegiato sul senso di perdita , e questa volta ci riferiamo al nostro posmoderno, (non per niente il libro è stato stampato nel maggio 2000) , cosmo o caos nel quale anche paesi meno privilegiati si costruiscono arsenali. Qui non si può, per le tematiche e non per la forma, che rifarsi a Ungaretti e ai temi del nomade, dell’errare e del naufrago e, certamente della guerra: il mare assume qui il senso di una forza atavica e dissolvente è un protagonista, insieme all’isola, alla terraferma, di una grande forza, dell’inconscio e della bellezza misteriosa e avvincente: non per niente i biologi marini hanno, proprio per lo splendore dei pesci, degli invertebrati e delle alghe, rivalutato (e a ragione) il Mediterraneo che in quanto a colori e forme di vita ha ben poco da invidiare ai mari della barriera corallina, meta di mitici viaggi turistici.

         Dopo queste considerazioni, entrando nello specifico dei versi, dei componimenti di questo autore, la cifra dominante, ad un primo livello di lettura, è quello di una cristallina chiarezza che non preclude un forte articolarsi del discorso, in una sospensione tesa e in perfetta sintonia con la “materia” trattata della quale si diceva sopra.

         Nel componimento di apertura “Canzone di Terra Murata”:-“ Sono i segni del tempo/ le minuziose righe che piegano la falesia/ un calendario aperto/ come le rughe sul volto cupo/ di chi si esercita tra queste mura/ ad alternare il passo come il lupo/ scrutando grappoli di case/ cintate di petunie azzurre.// E l’orizzonte è un mare calcinato/ la sera/ /quando i profumi trapassano le sbarre/ e il mare bussa nelle fondamenta: qui è la stabile e tristissima condizione dei reclusi, con tutto quello che c’è di disumano e disumanizzante, che viene espressa: qui è la stessa natura, nelle sue componenti del mare, del vento e dei profumi a entrare in scena, se mai potesse lenire il dolore e la mostruosità del carcere: forse il mare bussa nelle fondamenta del carcere e delle cose per essere, in una sua goccia, recluso anche lui, in uno scherzo che diviene ansia o nenia per un sonno senza sogni.

In questo testo la scrittura è sorvegliata e calibrata, dalla forte immediatezza, capace di esprimere emozioni dominate, quanto nello stesso tempo forti e devastanti. Alle immagini naturali, sempre sottese ad un motivo mai soggettivo, ma di ricerca delle proprie radici e in quelle degli altri, nel mondo e con la tensione alla quale ci si riferiva sopra, si trova in Terra Murata (e già questo titolo esprime il senso di prigionia dell’uomo posmoderno prima ancora che del carcerato), la sezione che prende il nome di Averno, sezione che il linguaggio comune definisce politica. L’Averno è l’Averno islamico, descritto con versi dalla chiarezza lapidaria e asciutta:-/ Tempeste nel deserto/ oscuramenti cure di petrolio/ l’alba del nuovo ordine/ epifania della mancanza/ si presenta radiosa…/… radiosa senza dimenticare i morti della guera del Golfo o il cormorano che probabilmente non volerà più, in una catastrofe anche ecologica.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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