Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Sandro Montalto: Scribacchino
di Antonio Spagnuolo



Sandro Montalto, Scribacchino, Ed. Joker, 2000, pagg.64, L. 20.000

Il mito, che sfugge di mano turbato dai desideri, che rifugia la capacità di odiare se stesso e sublima contemporaneamente la frustrazione, che tante bufere improvvise balbetta al di là dell’onirico, non restituisce le pulsioni, occulte e benefiche restauratrici della sopravvivenza, ma rielabora l’istante in cui parliamo della nostra espressione e sfugge, anziché apparire come unità integrata nelle tensioni e nelle incoerenze delle  visitazioni. Così la parola, progettata o vissuta, sequestrata o bestemmiata, sorpresa o costruita, rientra come una sconfitta ad accettare l’inaccettabile dello spirito, e la conseguente dicotomia accettazione/prevaricazione coinvolge tutta l’esperienza di un poeta, che desidera offrirsi squisitamente libero da ogni vincolo e da ogni possibile fraintendimento.
Montalto, che è alla sua prima pubblicazione in volume, non maschera la sottile ironia che lo insegue, attraverso il gioco dei colori, attraverso il proporsi dei sapori, attraverso la probabilità delle ombre e delle luci, che fanno del suo verso una parentesi poetica nella frettolosa accettazione della inconcludenza sociale e morale.
“Ecco:
nessun innumerevole qualcuno è come lui:
questo universale pensiero
questo comune se stesso
questo grandissimo maestro di grazie
questo supremo ineluttabile
questo integrale definito

colui che è l’Essere e il Non Essere
colui che è l’ignavia
colui che è il numero sparitore
colui che è il vicolo cieco
colui che genialmente enumera
colui che istruisce i batteri
colui che distrugge ciò che crea
colui che custodisce la liquida reliquia
colui che intrappola la luce
colui che enuclea i concetti fondamentali
(……….)
ecco:
esso è giunto, esso
 è il nulla silenzioso
 che ci sommerge e inghiotte:
e ci sorprende alle spalle.”  (pag. 18)
Fra numerose scissure e lucidi ammiccamenti la tensione, coerente e continuativa, trascina le metafore  al di fuori di ogni arbitrarietà e , in una fascinosa polifonia, saldamente dirompente ad ogni pagina , sgorga nelle contrapposizioni semantiche, per una codificazione tutta personale straordinariamente decontaminata dal quotidiano, travolgendo il centro del mondo in una querelle dai fulminei cenni e dalle orchestrate luminosità.
Con le sole sue forze riesce a farsi carico della nostra realtà mai accaduta, in un atto che compie a suo piacimento la misteriosa , ma pur necessaria, reinvenzione del subconscio attraverso la rivisitazione di uno sfumato onirico decisamente e squisitamente intellettuale.
La simmetria dei tempi, la specularità delle contraddizioni, la diversità dei segni, mascherati dal robusto razionalismo, lo smarrimento per una paura indefinita ed incombente (“…morte: muta metafora o meritata meta”…), fra il ritmo incalzante delle folgorazioni tace le colpe per non abbandonare le certezze, cosi che si consegni alla scrittura, senza alcun tremore, per niente angosciato da incubi, fantasmi, apparizioni, che troppo spesso saltano dal nulla e per il nulla, e che riescono in alcuni poeti a degradare il dettato delle proprie intuizioni.
“Chissà quante molteplici verità
sono sepolte sotto le parole,
significati perduti, crittografati
discorsi inconcludenti…
Mai afferreremo l’intermittente
 fuggire delle colpe…”  (pag.30)
Non vi è stanchezza nel capovolgere la realtà per una irrealtà concreta, instaurando un dialogo con il passato nel futuro o dal futuribile al già toccato, quasi che il gioco delle parole e delle frasi potesse rientrare , senza colpo ferire, in quello che gli addetti ai lavori chiamano transfert, per alleviare le contorsioni dell’inconscio.
“Mi trovo dentro la lingua
mi trovo nella lingua labirinto dai muri di cento dimensioni fisiche
ci sono caduto dal muro che indulge al fumo
e ai vasti orizzonti del possibile, del comune, del senso e nonsenso
mi addentro fra  flora e fauna di sintagmi-esoscheletro
mi aggiro fra i significati mentre so che la lingua mi inganna mentendo…” (pag.45)
Flessibile, robusto, autosufficiente, lo strumento di scrittura, capace di reinventare con la moltitudine indistinta e flagellante e con una certa forzatura di toni, che sfocia con disinvoltura in una ridondante euforia, sprona le possibilità di variegate comunicazioni per una lettura protagonista dell’apparente polemica.
Si immette, con montaggi e inquadrature in quella illusoria tridimensionalità della vita per inquadrare valori tattili nelle innumerevoli finestre aperte, a volte crudelmente, a volte gioiosamente, sulle immagini che durano un soffio, sui ricordi che incidono sulla narrazione, sulle ipotesi che raggirano il pensiero, sulle sorprese che il ritmo propone, sulle coreografie che si perdono nel niente, perché chiamate a simboleggiare una realtà che non si può dire.
Inghiottiti come siamo dall’apparenza del vero, immutabile ma irrapresentabile, nelle similitudini e nelle vanità, nelle finzioni e nelle dominazioni, non c’è rinuncia, ma proposizione, non c’è demolizione, ma rimozione.
“Non è un dolore, questo, che mi pietrifica dentro
come le altre volte, tutte diverse seppur tutte malvagie:
non è lo stesso delirio questo foglietto illeggibile
non lo stesso sudore questo nella sera tarda e falsa
non definitivo nulla questo esercitarsi alla morte”. (pag.57).
Circostanze capaci di raccogliere le sincronie più svariate per enucleare quell’eccesso che aggredisce il nostro subconscio e lo sbatte nei contenuti psichici più aggressivi, a verificare le distanze più incredibili o le invenzioni linguistiche più acrobatiche, tali da far sembrare inutilizzabili le coincidenze significative o le esplosioni fenomeniche.
Protagonista nell’attenzione al linguaggio, nella precisione del periodare, nella ricerca del ritmo Montalto delinea sin da questa sua prima prova una lucida e personale problematica stilistica, fuori da ogni probabile imitazione e scevra da interferenze precostituite, in modo tale da offrire delle pagine compiutamente progettate, nella consapevolezza che l’arte non è la realtà in presa diretta, ma è la difficoltà di rendere realisticamente credibile anche l’irreale.
In una ricchezza caleidoscopica anche la denuncia dello smembramento finale, della sconfitta del corpo contro il tempo , in cui l’avventura corre senza regole codificate e la sghignazzante falce pronuncia l’empietà del quotidiano, anche la perdita del pensiero si proietta con dignitosa musicalità in quel tanto di pittoresco che la furia rovescia ed il mutamento sovverte.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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