Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Identità e disagio
di Ettore Bonessio di Terzet
 

 

Essere poeta, per Seamus Heaney, nato nel 1939 nella contea di Derry Irlanda
del Nord, da una famiglia di contadini di tradizione cattolica, pacifista e irredenti
sta a significare far collimare e combaciare l'identità biografica con l'identità di
uomo coincidente con la terra di origine: esse-re poeta è cosa ardua e tormentata.
Esse-re poeta significa riflettere le molte tensioni di una terra come l'Irlanda del
Nord che ha due lingue, due culture in equilibrio instabile. Essere poeta è scrivere
in una lingua, quella inglese, che si sente solo parzialmente, mentre un'altra lingua,
quella gaelica, quasi scomparsa, fa sentire saldamente legati alla terra natale.
A questo si aggiunga che Heaney non ha mai preso una posizione politica precisa,
non ha mai aderito ad alcuna militanza: si comprende allora perché il poeta si sente
diviso, sente che il proprio io e la propria mente sono scissi e che tale scissione
rappresenta non più solo se stessi, ma la mancanza di radici; significa il senso
dell'erranza, il sentimento di esilio, ovvero la mancanza di aderenza all'organismo
sociale di cui si fa parte.
E questa è la condizione dell'uomo occidentale contemporaneo, quell'uomo che è
in disagio perché ha perso il rapporto tra interno ed esterno come già prefigurava
Nietzsche nel 1874. Tale disagio porta Heaney dal discorso singolare e personale
ad assumere una dimensione plurale, più generale se non universale, tentando
con ciò di superare proprio questa condizione disagiata. La voce parte da un punto
geografico e storico per alzarsi a tutto il cosmo a dire tale condizione, a tracciare
i parametri di questa situazione. Questa voce pacata, sin dall'inizio del dire, possiede
una sensibile forza sensuale, dona alla lingua una forza ritmica intensissima legata
all'immediata esperienza. La voce è dinanzi alla vita naturale, alla vitalità ditale
mondo pieno di misteri: mondo di concretezza. E così, senza astrattezze, risulta e
rimane la cadenza poetica. In Death of a Naturalist le parole sono semplici, concrete
per l'appunto genuine e autentiche nel rispetto sia del paesaggio dell'UIster, sia
della sensibilità di una cultura comune. La terra è diventata un legame metonimico
tra il poeta e la propria opera, la penna è pala che scava e affonda nel patrimonio
linguistico per portare alla luce le parole dimenticate, quelle che sono ancora
nascoste. In questa dialettica interviene l'io che va a coincidere con il luogo: i due
sensi si toccano e allora il poeta inizia la domanda: come essere fedele alla propria
visione poetica e nel contempo trovare una ragione sostanziale, culturalmente ed
eticamente, per scrivere in un luogo, in un paese come l'Irlanda?
La lingua diventa la sintesi di due tradizioni, quella irlandese, vissuta come pietà
e riflessa nella musicalità delle vocali, e quella inglese, più letterariamente consapevole,
riverberata dalle consonanti. La poesia è sentita come la porta per accedere a un
mondo dove sono sepolte le sensazioni. Allora ecco la preistoria irlandese e il vasto
territorio paludoso del nord che racchiude in sé tutta la memoria del paesaggio e del
passato misterico del Nord europeo, terra da cui sono venuti i primi colonizzatori
d'Irlanda. Heaney connette i morti trovati due secoli dopo nelle torbiere danesi con
i martiri politici irlandesi, la Madre Terra con l'antico nume tutelare femminile; così
facendo dà spessore simbolico alla realtà contemporanea del suo heimat. Da questo
incontro l'antico rito della fertilizzazione diventa l'archetipo delle barbarie e delle
atrocità dell'Ulster. La violenza è radicata nella tradizione più lontana. Ecco, allora,
il verso secco, asciutto, scarno, durissimo nello scavare tra i corpi ritrovati: il poeta
è affascinato dalla descrizione di questa morte putrefatta ma vivissima, la lingua
diviene cruda e il ritmo dato dalle quartine serrato. Heaney viene coinvolto nelle
spire di questo atavico odio che stravolge da sempre la terra nativa, questa spirale
di guerra che ha mutato la faccia dell'Irlanda: da qui il senso di colpa che fa confessare
l'inanità del poetare, la conseguente connivenza e l'inutilità della propria rabbia
civilizzata dinanzi alla barbarie altrettanto civilizzata che l'occhio vede. Scrivere
poesia è difficile e tormentoso in questa situazione e soprattutto fa sentire esuli dentro
i confini della patria. Allora è necessario allontanarsi da essa per affrontare
artisticamente la realtà ed essere capaci, ancora, di fedeltà e di obiettività.
Da questo momento il tempo della poesia di Heaney muta, diventa più calmo e più
discorsivo. Si parla di se stessi e della gente e questo parlare diviene mezzo per la
luce: ora la dialettica è tra l'io e la gente comune di cui si ha esperienza, dialettica
che porta versi più dolci, gradevoli, con scansioni che conducono a livello di coscienza
quello che si era creduto perduto nel tempo. Per sempre. Ma lo stato di pace dura
poco perché la paura della morte e della guerra rincorre l'io e la mente, e ritorna il
dubbio sulla poesia, il dubbio sulla difesa della posizione poietica. La parola va
ricostruita con devozione perché possa ancora dire l'indicibile. La sola consolazione
che rimane è quella di attraversare il mondo dei morti per narrare la loro storia:
essere correlati alla realtà e a se stessi, rimanendo nell'esilio e, nell'esilio, rimanere
fedeli alla poesia.
L'arte ( la poesia ) diventa una forma del sapere, un capire l'ansia di voler contenere
l'universo e di dare una verità non particolare: il poeta è vate, un religioso laico che,
in una società che ha perso la dimensione religiosa, trasfigura poesia in preghiera e
trasmuta preghiera in poesia. L'etica della poesia viene superata perché poesia è
solo se conduce alla pace che, forse, è quell'eliottiana visione della luce che ci
permette di sentire e di capire il valore più grande: la pace interiore.

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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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