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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Riflessi
da un luogo sommerso
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1. Appunti sulle pitture e le idee di Enzo Fabbrucci
Lui non
riconosce predecessori. Ha memoria di ciò che non esiste e non ricorda
ciò che esiste. Finisterre, benché i suoi occhi non la vedano
mai, la ricorda benissimo. Ricorda il viandante che la guardava - quell’isola
appena emersa, fitta di fortezze e città, brulicante di uomini e
paesaggi, quell’isola sonora e felice che, di colpo, è stata coperta
dalla nebbia. E dentro quella nebbia, a tastoni, il viandante c’è
ancora – immobile, stupefatto. Un centimetro di terra, un pezzettino di
pelle, un millimetro di piede, sono diventati invisibili – ma non sono
spariti. Sono rimasti lì, dentro il paesaggio. Non più guardati.
Fermi nella loro invisibilità. Perfetti. E lui, da scrupoloso pittore,
da ostinato scrittore, aspetta che la nebbia si dissipi, attorno alla schiena
del viandante scomparso, e continua a prendere appunti.
La follia
è perdere le regole del gioco. Lui le conosce, invece: sono il fondale
di un gioco interminabile. Sono il riflesso di un luogo sommerso, vulcanico,
inafferrabile, che, prima di emergere dal fondale, rivela già le
scene, i volti, le forme. Non si chiama Finisterre. Non si chiama Atlantide.
Il suo nome, nel suono, evoca regioni più scure.
Ignora le
premesse necessarie. Non sa definire con parole comprensibili quanto intende
fare: forse mettere le basi per un trattato delle immagini mentali, forse
disfarle. E poi, quelle immagini, dove poggeranno? Verso quale direzione
si protenderanno? Con quale logica, espulse dalla mente, si collocheranno
nello spazio?
Nel pensiero
umano non è mai esistito un punto armonico e conclusivo; e, se questo
punto esiste, è solo un pulviscolo alla periferia del cerchio e
non il centro di una sfera compatta. Ogni cerchio, per l'uomo, è
un’inutile morte. Un atto superfluo.
Chi ha visioni,
che scelga come stare rispetto all'energia che sprigionano. La posizione,
è tutto. Il come sentirle. Delle visioni si sa fin troppo: galleggiano,
dentro e fuori dal corpo; sono il substrato, il fiume sotterraneo, le figure
notturne; sono ciò di cui non siamo mai padroni, il sogno e l'infanzia,
l'incubo e il buio. Nessuno ha da gloriarsene: ne è colpito, e basta.
Come tutti. C'è chi lo ammette, c'è chi no. Ma, quando si
comincia a essere sopraffatti o ammutoliti o allegri, quando si hanno sentimenti
forti e non deboli rispetto ai propri incubi, allora il gioco acquista
senso. Allora si può veramente iniziare.
Le mani
non modellano niente, non impongono nulla; si limitano a organizzare fantasmi:
a comprendere in che modo piazzare il corpo e cosa consentirgli, affinché
gli occhi non si oppongano ai sogni o le orecchie alle voci o la schiena
ai brividi. In modo che tutto vibri non all'unisono, ma in reale armonia.
Eleva architetture di sabbia nel deserto, ma ogni notte il vento annulla gli spazi che ha appena creato; e ogni notte lui grida, cercando di ricostruire la casa, la salvezza. Ma non c’è salvezza. Sedere su uno scoglio e gettare pietre contro la propria ombra: ecco l’arte. Rischiare la vita per crearne un’altra, che sarà sempre impossibile. Vivere da sonnambuli, mentre un filo d’acqua ci bagna i piedi, sul terreno sassoso.
Una leggenda racconta di cinque persone perse in un deserto. Le prime quattro vedevano, la quinta no. Chi vedeva si smarrì miseramente fra le dune più vicine. Il cieco, invece, camminò da solo in piena notte, fiutando la direzione dei venti, e arrivò a un’oasi, dove si dissetò. Lungo i bordi dell’oasi c’era una vecchia ossuta, la pelle martoriata dal sole, lo sguardo strabico. Sembrò fissare il sopravvissuto in volto, ma in realtà guardava la sua schiena - la parte del corpo non consentita allo sguardo.
Non ama la morte: un corpo dentro il sacco, e poi più nulla. Quello si chiama cadavere. Per essere veramente morti, bisogna saper tornare da dove si è sprofondati. Tornare è l'arte più difficile, più faticosa. Essere sopraffatti, consegnarsi al regno dei folli, degli storpi e dei morti, è facile, quando si perde la parola per dirlo. E' quando la si conserva che si diventa veramente strani: come se si avesse una bocca adatta alle parole ma queste fossero ridotte a un flusso vischioso, a una balbettante sentenza.
Parla di qualcuno che ha già parlato o che sta parlando. E' sulla sua scia. Come se si fosse rannicchiato dietro di lui, per spiarlo, e ora riportasse sul foglio le parole che lo riguardano. Parole smozzicate – pezzi di discorso, aneddoti, frammenti, respiri: qualcosa che la pittura e la parola riescono appena a trascrivere. Qualcosa di intermedio, che non appartiene né alla terra né al cielo. Di infimo, di ossessivo e di strano, da cui non trarre nessun insegnamento, che non si rifletterà in nessuno specchio. Nella babele dei linguaggi un artista dovrebbe esistere solo per perdersi e ubriacarsi, alla ricerca di echi inattesi, fantasmi imprevisti, vuoti nella mente, confuso da controarchitetture infinite…
Seguire
strade trasversali, immerse nel buio, con la precisa sensazione di ricordare
il volto anonimo e terribile elaborato in migliaia di incubi, e di non
poterlo mai ricordare esattamente. Camminare sempre. Tornare.
Chi torna
è un resuscitato. Non è simile agli altri. E' come se vivesse
appartato, dentro la sua metafora, e non comprendesse come gli individui
che lo circondano possano essere così sazi e tranquilli, così
ben chiusi nei recinti del loro regno, quando tutto il mondo reale è
una trama brulicante di apparizioni, di immagini, di fantasmi. Per vivere
da individui normali è necessario essere ciechi e sordi alla percezione
vera, che varca le soglie.
Chi non balza al momento giusto fuori dal nido, ci resta dentro, a riflettere sul balzo non compiuto, a contemplare l’oggetto perduto – se stesso librato in volo. Chi non balza al momento giusto, si trova compagno di molte anime non nate. Riflette con i morti. Ma è anche colui che reca ai vivi, così lontani da lui, la sostanza della loro stessa vita.
Nascono, nelle crepe del marciapiede, nelle fessure del soffitto, nelle anse del fiume, teste rosse e bianche di uccelli-profeta, di misteriose e ammalianti sirene.
Lascia l'isola e spinge il remo nelle onde. Un uccello isolato segue lo scafo. Un rombo traversa l'aria, si avvicina la cascata. Ogni movimento conduce laggiù. L'uomo ha un presagio. Vede tutto il futuro. L'imbarcazione travolta dall'acqua, il remo che si frantuma, l’uccello che accompagna la caduta con voli lenti. Quando, all'improvviso, a pochi metri dal gorgo, la barca si ferma. Non precipita nella parete di schiuma, come sarebbe naturale. Resta al di qua, immobile. Al vortice della cascata si oppongono le raffiche di vento che soffiano dall'isola. L’uccello vola indietro con strida di dolore. Anche le nubi, sfilacciate dal nuovo vento, si torcono, si sfanno, ritornano all'isola. Gettato il remo nell'acqua, l'uomo fissa il gorgo bianco. Fermo al centro del fiume, respinto dalla cascata febbrile e dall'isola calma, non aspettando niente né dalla terra né dal gorgo, fissa gli alberi che ne delineano la riva e respira sereno.
Improvviso, un lampo illumina le macerie di un carro, sotto la pioggia fittissima. Un fulmine ha frantumato il legno delle stanghe, ha fatto a pezzi le ruote, ha sparpagliato covoni di paglia e di fieno. La luce si spegne, la notte torna buia. Poi un secondo lampo. Una luce violacea. Il carro riappare. Il gallo è sull’aia. È tornato intatto, come se nessun fulmine lo avesse incenerito. E' integro, lucente, immortale, come, per un attimo, ha desiderato che fosse. Per una volta, nella realtà del mondo esterno, accade quello che succede ogni giorno nella metafora dell'arte: si torna indietro.
Cammina
da ore, in totale solitudine, quando gli si avvicina uno sconosciuto, gli
prende la faccia fra le mani e lui, sentendo il contatto di quelle dita,
esce dal sopore, riapre gli occhi, sorride. Vede un sole a picco, perpendicolare
alla terra; una luce assoluta, che appartiene al regno della notte; gli
abitanti, o sono invisibili o morti. Il pianeta è affondato
nel silenzio più profondo. La città ha porte sbarrate, finestre
chiuse, viali deserti, e il fiume è prosciugato.
E poi,
il cielo. Quell'eccesso di cielo – un bianco che schiaccia i covoni
contro le pianure, le montagne contro l'orizzonte, le vele contro il mare.
Da togliere il fiato. Non ci sono neppure le nuvole. Non c’è l’aria.
Parlare è impossibile. Non si è ancora nati realmente. Si
abita nel limbo precedente, dove tutto è bianco o nero.
Non deve dipingere soltanto ciò che vede davanti, ma anche ciò che vede dentro di sé. Ma se in sé non vede nulla, smetta pure di dipingere quanto vede. Non servirebbe a nulla. L'illusione dell'immagine può distrarre ma lo sguardo reale porta al tessuto, alla trama, alla sostanza vivente. Se il pittore scompone la corteccia di un albero ottiene linfa e non allegorie. Se dipinge il volto denuda le arterie della pelle. Se guarda la terra ne vede le combustioni profonde, i vapori sotterranei. Ogni superficie rimanda a una profondità che è impossibile percepire. E l’uccello, immobile e pesantissimo, fermo sul ramo di fronte a lui, sa tutto questo. Non si concede il volo. Con lui condivide la necessità di uno sguardo ostinato, fisso, senza palpebre.
All'inizio
voleva dipingere paesaggi o schiene. Aveva sempre raffigurato gli altri
sbozzandone le spalle e la nuca, salvaguardando il segreto del volto. Vedere
una faccia – così pensava - era uccidere chi la possiede.
Poi tutto
cambiò. Capì, col passare dei giorni, che le schiene erano
troppo opache, troppo cupe. Non gli servivano. Cominciò a provare
un desiderio, sempre più irresistibile: essere guardato dagli esseri
che dipingeva. E così nacquero le facce. Nacquero gli storpi, i
matti, gli ubriachi – e cominciò a sentirsi fissato da figure che
non avevano la fissità solenne dell’opera finita ma la mobilità
sfuggente e stolida degli esseri vivi.
Il sogno
dell’Animale Sommerso lui lo conosce bene: è una montagna luminosa,
circondata di nuvole. Come vorrebbe realizzare il sogno del Grande Animale!
Dipingere la montagna bianca nella tela bianca. Ora s accinge a farlo.
Sente un vuoto sotto le costole, all'altezza del cuore - è una sensazione
penosa ma forte, che garantisce forza al quadro. Aspetta. Non disegna quando
vorrebbe, ma quando una voce glielo impone. Allora è l'inizio, a
costo di non essere più in sé, preso da passione estrema.
L’inizio del bellissimo sogno: la montagna bianca nel bianco.
L'unica
immagine notturna che aveva sempre sognato è una distesa piatta,
un orizzonte grigio, una linea scura. Poteva essere la linea che delimita
un oceano come un deserto. O la bava lasciata dall’animale. I sogni non
hanno mai forme precise. Anche la visione non ha affatto bisogno di chi
la continua a vedere.
Le parole
illeggibili scarabocchiate in un carcere di Dublino, la lettera smarrita
e mai ritrovata di Rimbaud, la stele sepolta dello scriba egiziano, il
disegno eroso dalla pioggia e calpestato dai passanti, i frontoni decorati
cancellati dai bombardamenti, si assomigliano: appartengono allo sterminato
serbatoio delle scritture potenziali, delle scritture che avrebbero potuto
essere e non sono state; che galleggiano, informi ma distinte, nella zona
d’ombra fra morti e vivi. Sono scritture di esseri che non si rassegnano
alla sopraffazione, che continuamente emettono voce, anche quando la voce
sarebbe impossibile.
Si è
originali solo quando si riconosce a se stessi una deforme presa di possesso
del mondo. Perché l’arte è – proprio nell’attimo prima in
cui sarà cancellata.
Chi balbetta ha necessità di dover riferire con ansia qualcosa che non riesce a proferire con parole articolate. Si aggira attorno alle sue stesse parole. Le comprime, le accorcia, le violenta. Narra, come può, di qualcosa che è totalmente inenarrabile. Ma chi balbetta ha un senso assoluto della realtà. Sa che la catastrofe è già avvenuta, ma finge che il passato sia ancora futuro. E si colloca nell’attimo.
Per dieci
anni, ogni giorno, un mendicante offre un frutto al re di Valbruna. Il
re lo accetta con degnazione intimando ai servitori di gettarlo nel cortile.
Poi, dopo dieci anni, mentre il mendicante gli offre l'ennesimo dono, una
scimmia salta sul bracciolo del trono e lo morde: un rubino rotola sul
pavimento. Fra i frutti marci gettati nel cortile della reggia per dieci
anni sono mescolate gemme preziose. Il re ordina al mendicante di parlare.
Questi gli chiede di assisterlo in un'impresa magica e lo invita a recarsi
al grande cimitero della città la prima notte di luna nuova. Lì
troverà appeso ad un albero il cadavere di un impiccato: dovrà
recidere la corda e seppellirlo. Ipnotizzato dal comando del mago, il re
va al cimitero, nella notte di luna; recide la corda, si carica il cadavere
sulle spalle, va a sotterrarlo. Ma il morto gli insinua racconti nell'orecchio.
Durante il viaggio non smette di narrare, e ogni storia finisce con un
enigma. Il re, alla soluzione di ogni enigma, si ritrova con il cadavere
che oscilla nel buio, ancora ai piedi della forca, e riprende a parlare.
Il re deve, di nuovo, recidere la corda, deporlo dal ramo, caricarlo sulle
spalle, incamminarsi verso il cimitero. E ancora il peso del corpo sulla
schiena. Ancora le storie del morto. Ancora le domande, l'iniziare da capo.
“Come il
re, tu comanderai. - sibila il démone – Ma a me devi obbedire. Lo
spirito della parola passa in te. Nel pieno della notte, col mio peso sulle
spalle, ascolti e scrivi, senza sapere cosa. Poi, quando smetto, ti ritrovi
al punto di partenza, sotto la forca, condannato a riascoltarmi. Anche
se molte delle storie, poiché te le racconto a voce bassa nel buio,
vanno perdute.
Portami
su di te. Portami ancora. Se mi lasci, se mi sotterri, non mi sentirai
più. E puoi sopportare di non sentirmi? E' reale la tua vita, se
non ascolti la mia voce, se non vivi fra l'inizio e la fine di una storia,
se non ti afferrasse la passione di una parola che aggiungerà qualcosa
al mondo?
Il mondo
è imperfetto - un ghigno, un sarcasmo. Ma, con quella storia, diventa
tollerabile. Io sono quella storia. Non sotterrarmi. Non ancora. Ascòltami.
Oggi sono il cavaliere che chiede al vecchio traghettatore di portarlo
alla riva opposta; domani sarò il giovane smarrito per trecento
anni nella foresta fatata; fra tre giorni il fiume tumultuoso dove passa
la barca del Graal. Il fiume si snoda, appaiono gli alberi, altre storie
arrivano dai boschi – storie di indigeni e uccelli, di boschi e cascate.
Voci risalgono dall'acqua che scroscia giù. Ogni particella d'aria
ha una storia. Niente finisce. Devi caricarmi ancora sulle spalle e voltare
la schiena alla forca. Guàrdati attorno. Credi di possedere un regno,
di essere re: non è vero. Cammina per la città, se vuoi.
Nessuno ti riconoscerà o si prostrerà ai tuoi piedi. Sei
solo un essere umano che porta sulle spalle il fardello di uno spettro
e lo spettro non smette di narrargli ciò che accade e continuerà
ad accadere. Seppelliscimi pure, alla fine di tutte le storie, quando ti
sembrerà che non ci sia più nulla da dire; però, quando
ti sarà chiara la tua stessa storia e io sarò coperto da
strati e strati di terra e tu regnerai consapevole di essere re, la mia
voce ti parlerà ancora, da sotto la tomba, come l'ombra non smette
di esistere e lo specchio di rifletterti”.
Prima che
appaiano le Sirene, l’ordine di Ulisse è chiaro e i compiti sono
scrupolosamente stabiliti: l’equipaggio deve tapparsi le orecchie con tappi
di cera e guidare la nave nello stretto. Ma lui, marinaio fra i marinai,
è indisciplinato, disobbediente. Immagina già, dentro il
suo corpo, il canto delle sirene. Se lo sente in tutte le viscere, dalla
testa ai piedi. Sa che potrebbe commettere cose sconsiderate, per via di
quel canto, perdere la vita perché la loro voce penetra nella pelle,
nei muscoli, nelle ossa, fino all’ultima cellula sanguigna.
Non vuole
che Ulisse sia il solo a sentire tutto questo. Perché questa iniquità?
Legato all’albero maestro, mentre aspetta con superbia il suo destino.
Sarà il solo a udire il canto delle Sirene, che soggioga tutti i
marinai, e il solo a salvarsi. Un ascoltatore privilegiato. Un felice tiranno.
Il marinaio
non è d’accordo. La cera nelle orecchie, fissa Ulisse prima che
appaiano le Sirene e pensa: quell’uomo vuole togliere ai suoi uomini il
privilegio di udire quel canto meraviglioso e irripetibile, riserbandolo
solo alle sue orecchie; o, da incallito bugiardo, se non sentirà
niente, simulerà di essere posseduto da un canto inesistente e se
ne vanterà con i suoi pari.
Il marinaio
comincia a credere che, anche togliendosi la cera dalle orecchie, non accadrebbe
niente di spaventoso: Ulisse non lo punirà e le Sirene non lo costringeranno
a impazzire. Soltanto ascolterebbe quello che ora gli viene negato di ascoltare.
Così
stacca le mani dai remi, le avvicina alla testa, si toglie la cera proprio
nel momento in cui Ulisse, che gli volta la schiena, si muove come un ossesso.
Ascolta, assieme a lui. Il canto, ora, c’è. Aveva sospettato si
trattasse di un inganno, ma il canto esiste. Risuona. Le donne-uccello
emettono il loro impercettibile lamento. Là, invisibili dietro gli
scogli, cantano.
Ma non
c'è niente di terribile o di devastante nelle loro voci. Si tratta
di un bisbiglio semplice, rauco, di un comune intreccio di voci. L’uomo
sente che potrà parlare, un giorno, di tutto questo, a patto di
non ascoltare più adesso. Sa che non si può narrare, domani,
di ciò che si continua a sentire oggi. Per cui, piano piano, ricongiunge
le mani alle tempie. Alla ricerca del silenzio, del suo personale, felice
coraggioso silenzio, il marinaio si rimette la cera nelle orecchie.
Sermo
ad nudos
Sermone
che si immagina pronunciato da John Donne la Notte di Natale,
nella
chiesa di Saint Paul (1630).
Solo
adesso arrivo a parlarvi, miei fedeli. Educato fra uomini abituati al disprezzo
della morte e al culto dei morti, affamati di un immaginario martirio e
di una tormentosa trascendenza, oppressi dal cilicio di una religione oscura
come una tara inconfessabile, solo adesso arrivo a parlarvi, come dopo
un lungo viaggio.
Ora
siamo nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, e non possiamo tacere. I nostri
abiti sono sono quella piccola montagna di stracci ammucchiata davanti
al portale. Ma non vergognatevi. Nessuno entrerà. La porta è
stata sbarrata dall'interno con un trave di legno. E' quasi mezzanotte
e nessuno potrà vederci così come siamo. Dowland ha acceso
questo grande fuoco al centro della chiesa, che ci scalda tutti. Non possiamo
avere freddo. Dobbiamo restare in preghiera - noi, chiusi in questo silenzioso
mausoleo con i nostri corpi nudi, nudi come lo furono alla nascita, senza
lo straccio di una veste, senza l'orpello di un abito, scorticati da ogni
lusso superfluo - con tutti i nostri corpi, giovani, vecchi, bambini, adulti,
nel giorno della massima festività: il Natale del 1630, la nascita
di Cristo, Nostro Signore.
Il
cuore mi si colma di commozione. Quasi non riesco a proferire parola. Come
siete diversi tutti. Il tempo è leggero su quelle braccia, pesante
su quella schiena, funesto su quel cranio, atroce su quelle gambe. Vi vedo
tutti - non posso farne a meno. Vedo la vita in cammino, come il suo muto
gemello, il Signore della Morte. Dio passa dentro di voi. Quell'addome
magro, Katherine, ieri era florido e ha generato Anna Porter, vostra figlia.
Quel braccio che ieri lavorava duramente nei campi, Summer, adesso è
lì, raggrinzito sul volume di preghiere. Vi vedo con chiarezza,
come un cartografo la mappa delle terre che esplorerà.
Ma
i vostri pensieri sono le cose più incredibili: affollano questo
luogo da ogni parte, sono uno sciame di cose tranquille e atroci, chi vorrebbe
ammazzare il vicino di campo, chi cullare la figlia, chi mangiare un arrosto
di cervo, chi fare all'amore con la donna dell'amico. Voi che ora mi ascoltate
e arate dei campi e nutrite delle famiglie, non avete mai sentito parlare,
da bambini, di apostasie, anatemi, abiure, sentenze. Non siete stati allontanati,
a sei anni, da un drappello di militari che conducevano l'eretico alla
forca: non vi hanno coperto il viso, come fecero a me, obbligandomi a giurare
di non fare parola di quello scandalo. Io, che sentii solo il rullo dei
tamburi, non promisi però di non immaginare: così vidi me
stesso, issato sulla forca, il cappuccio sulla testa, ma, nel momento in
cui la botola avrebbe dovuto aprirsi, la terra tremò, franò
la forca, e io ero là, nudo e ispirato, la morte negli occhi, che
soggiogavo tutti con le parole e cambiavo il corso del mondo.
Ognuno
di voi, lo sapete, è nato da un luogo buio, lì ha preso forma:
e, dentro il corpo della madre, è nato e si è nutrito, per
nove mesi. Ma, se quel tempo non fosse stato rispettato, se il feto avesse
avuto qualche malattia, la morte avrebbe ucciso le madri e i figli, e qui
ci sarebbero dei posti vuoti e io non potrei guardare negli occhi persone
che hanno vissuto una vita intera, di felicità o di stenti, perché
non sarebbero mai esistite, perché un piccolo germe, quel giorno
di primavera o di autunno, si sarebbe insediato nell'utero di qualche madre,
un piccolissimo insetto, invisibile a occhio nudo, che anche adesso potrebbe
benissimo stare sotto la cute del tuo braccio, John, o la pelle del tuo
cranio, Jane, anticipando il vostro viaggio agli inferi. La vita è
qualcosa di incongruo e di non ragionevole: dipende da un acaro o da un
bacillo, a noi è capitato di viverla e siamo qui, insieme, come
una mappa di cui è impossibile decifrare qualcosa. Siamo corpi
che si espongono a Dio.
Io
non mi staccherò più dalla pelle degli uomini, non sarò
più il perfetto ascoltatore delle Variazioni Walshingham di John
Bull, non sarò più l'assiduo frequentatore dell'Hamlet di
William Shakespeare. Mi spoglierò di tutte le mie maschere. Prima
di venire a Saint Paul a parlarvi, ho lacerato con un bisturi affilato
la tela in cui mi ero fatto dipingere con il lenzuolo funebre annodato
sul capo, già composto per la sepoltura: vezzi di poeta funebre,
che predispone la mappa del suo cadavere per il futuro giudizio di Dio.
Ora
siete voi la mia mappa - atlante, libri, pianeti, sudore, fatiche, singulti
-, la parabola accidentata della creazione. I libri sacri lo dicono: La
creazione è il sommo bene, ecco l'opera di Dio, mirabile ai nostri
occhi, e tu mi hai fatto e plasmato, Signore: ma queste meraviglie, se
sono attaccate dalla peste e dilaniate dalle guerre, restano sempre delle
meraviglie? A volte marciscono negli uteri, a volte marciscono nel mondo,
e la vita è meno di una pezza da piedi, in cui il potente si asciuga
lo stivale infangato o la lancia insanguinata. E tutto è così
precario anche se ci copriamo di mille abiti e pellicce e corazze e armature,
perché la puntura di un ago infetto potrebbe provocare dolori, febbri,
bubboni, e non lasciarci più finché non abbiamo reso l'ultimo
respiro.
Credete
a me - miei cari, miei nudi fedeli, miei vivi - è solo per
caso che qui ci vediamo e parliamo. Nostro Signore è nato in quella
capanna che le nostre storie dolcificano a nido edificante di un bambino
meraviglioso ma lo sapete - voi! - che era una notte d'inverno e faceva
un freddo atroce e il fuoco non bastava e, se Cristo non fosse stato il
miracolo di se stesso, la febbre lo avrebbe assalito e lui sarebbe morto
di freddo o di fame o per qualche agente maligno, e lo avrebbero pianto
i suoi sventurati genitori, eletti da Dio?
Certo,
quando un uomo nasce, può scegliere le sue condizioni di vita. Può
viaggiare o pensare, sposarsi o restare solo, leggere libri o conquistare
città: ma non c'è nessuna differenza fra un eremita e un
viaggiatore, entrambi si consumano, entrambi sono ben fragili fortezze.
Uno preferisce farsi di pietra, l'altro di vento, ma alla fine devono tutti
morire: e chi va sul Nilo a trovarsi oscure terzane e sopravvive, e chi
non si sposta dal tugurio dove è nato e un piccolo verme lo possiede,
distrugge il suo corpo, lo espropria dalla vita: questo è il dannato
exitus a cui siamo tutti avviati, e i vostri corpi lo confermano, chi giovane,
chi vecchio, chi malato. Nessuno di voi è immune dai segni del tempo
e dai sintomi del male. Implorate al vostro corpo, che ora è qui,
nudo, di tacere a lungo, di non portarvi le sue sorde pene; fatelo stare
zitto; non forzatelo con lavori massacranti; non esibitelo come trofeo
nelle guerre; non esponetelo in guerre di religione; non vituperatelo in
risse da quattro soldi; non vi spaccate lo stomaco con la carne e i reni
con la birra.
Rispettiamoci:
la morte verrà, anche se siamo prudenti. Ma forse, possiamo essere
in armonia con lei, se cerchiamo di vivere un'ora d'ozio al giorno, di
leggerezza assoluta, senza vestiti e senza rimorsi, disincantati e liberi.
Eccoci qui, corpi e volti nudi, come non siamo mai stati prima, a mezzanotte.
Qui non ci sono orge o scandali, ma solo la pace giusta. Non sento più
il sussurro delle fontane, le armonie dei clavicordi, i cori delle campane,
i corni di caccia, le marce funebri, i canti liturgici. Ho perso il lessico
del teologo per essere qui, con voi, nel dubbio reale dei capelli intorno
all'osso, della pelle viva contro lo scheletro. Voi siete la mia mappa
planetaria e le mie strofe perfette: voi significate il mio abbandono di
ogni perfezione. Io entro, con voi, nella presenza della vita e della morte.
Anche
se la chiesa, come abbiamo voluto, è sbarrata a chiave. Anche se
non vogliamo che nessun vescovo o nessuna guardia entri qui, dove preghiamo,
e inorridito dallo scandalo delle mie parole condanni me al rogo e voi
ai lavori forzati. Ma sarebbe bello fosse così per ognuno di noi
- nella sua comunità; che fosse esposto a tutti, docile e giusto.
Certo è che l'uomo, così come voi lo vedete, ha bisogno di
tutto. E' l'essere più fragile. Se questo fuoco uscisse dai limiti
in cui lo abbiamo confinato e si appiccasse ai vostri corpi, cosa potrei
fare io, per voi? cercare di salvarvi? Ma come, se io sono debole e leggero
quanto voi? e se questa chiesa fosse invasa dall'acqua e grandi onde frantumassero
le vetrate e si impadronissero dei vostri corpi? e se il vento vi trascinasse
via come fuscelli? e se la terra vi inghiottisse nei suoi crateri?
Ecco,
noi siamo qui, nudi e calmi, in questo Natale, solo perché la terra
è tranquilla e non manda scosse e gli oceani non escono dai loro
limiti. Noi esistiamo e i nostri padri e i padri dei padri e i figli dei
figli e i figli dei nostri figli, magari per cinquecento anni, solo perché
in questi cinquecento anni la terra è rimasta tranquilla. Quindi
viviamo per caso: e intanto continuiamo a invecchiare e niente può
arrestare il processo se non amare meno la vita e pensare con saggezza
al possibile distacco.
Guardate
laggiù, i vostri abiti. Sono tutti fradici delle vostre fatiche,
del sudore, della gioia che avete vissuto. Sanno di quando avete fatto
all'amore o avete cagato i vostri escrementi. Sono una piccola montagna
lurida. Ma racchiudono tutti i fatti che vi sono accaduti. Forse, in qualche
brandello, ci sono rimasti anche i vostri pensieri. Forse un giorno li
brucerete, li dimenticherete, li getterete via, parte della vostra storia
resterà in quelle fibre di tessuto, e le fibre non andranno distrutte,
magari saranno macinate o riassorbite dall'acqua e porteranno nel mondo,
dove voi siete morti, l'eco di voi.
Eccoci
qui, nudi. Le maschere le abbiamo lasciate lì, addossate al portale
della chiesa, e qui nessuno entrerà. Ma ricordiamo che quelle maschere
sono anche la nostra storia. Non illudiamoci di essere sempre nudi. Santi
o veggenti o folli - è un destino di cui ho appena intravisto l'orrore.
Qualcuno
di voi è malato. Qualcuno di voi mi dirà che, magari, desidera
uccidersi. Non c'è niente di più naturale, per l'uomo, che
togliersi la vita. Cosa si può imputare, al suicida? Egli corre,
invece di camminare. Si affretta, invece di rallentare. Cade nel pozzo,
invece di esserci a fatica buttato dentro. Siamo tutti mortali. Non ci
sono peccati né nel vivere né nel morire. Siamo tutti la
mappa di un disegno sacro, che ognuno di noi potrebbe anche turbare, chi
ridendo, chi giocando, chi uccidendo, chi cominciando a danzare. Non c'è
un fato già scritto: già scritto è solo il fatto che
morremo.
Ma
qui, adesso che siamo nudi e spaventati, io vi dico: guardiamo con chiarezza
il mistero. Nutriamoci della morte come gustiamo la carne degli animali
o le piante della terra, è tutto un ciclo naturale, non pensiamo
troppo a noi, alle nostre famiglie, ai nostri figli, non possediamo i nostri
pensieri ma facciamo che loro traversino noi. Non viviamoci indispensabili,
anche se siamo portati a pensarlo, ognuno con le sue eccellenti ragioni.
Tutti andiamo e veniamo dalla stessa porta. Ognuno di noi ha il suo volto
e il suo incubo: la paura non è neppure un sentimento, è
uno stato. E' sangue della nostra carne, prendiamola con noi, passiamo
con lei le nostre ore. Viviamo o uccidiamoci o sopportiamo gli stenti:
ogni giorno ci colerà vita dalle mani, è stupido poi piangere
quando qualcuno muore, come se un fato crudele ce lo avesse strappato.
Sarebbe come incolpare una bottiglia di essere vuota, dopo che è
stata bevuta giorno per giorno. Piangere, lo possiamo fare a ogni secondo
che scappa dalle dieci dita; ma, se non fossimo esistiti, potremmo gustare
questa gioia di esserci, di gridare e battere i piedi, e gustare il vino
e tenerci per mano? Non saremmo nulla e allora niente servirebbe, né
cibo né vesti né carezze.
Se
uscite di qui, quando sarete di nuovo con le vostre vesti, non pensate
a voi stessi. Ricordate di esservi visti e che domani potete ancora vedervi,
se il caso lo concede. Non c'è speranza o disperazione: solo una
stretta di mano, un bacio, uno sguardo. Si vive di nulla. Qui, a pelle
nuda, col sangue che ci scorre nelle vene. Qualcuno leggerà la mappa
dei nostri corpi anche quando essi saranno cenere e solo le ossa indicheranno
la nostra permanenza sulla terra. Qualcuno ci sognerà o respirerà
di noi e noi rivivremo nel sogno di un re o nel rimpianto di un soldato,
nel dolore di un mendicante o nel sonno di un eremita, in qualche angolo
del pianeta, e allora, verme o Shakespeare, cosa importa, resteranno sempre
le ossa, fuori sarà primavera o inverno, o qualche altra stagione.
Forse
qualcuno di noi, presente oggi, potrebbe domani uccidere il vicino, per
una questione di donne o di campi. Si uccide per difendersi da chi ci opprime
o ci offende: è un impulso naturale. Un uomo deve uccidere, per
essere vivo: ma se lo fa, lo circondano ingombranti cadaveri, cose da sotterrare.
Deve essere più scaltro. Deve, se sarà necessario, annientare
l'altro, privarlo delle armi, ridurlo alla condizione di morto, ma senza
spargere sangue. Così l'essere umano ammazza il padre e la madre
non se li elimina fisicamente ma quando sa distaccarsene. Essere vivi è
sempre e solo un distacco. Tutta la vita è un raffinato vagare nelle
strategie dell'addio. Ma durante queste fasi, durante il tempo che ci separa
dalla morte o dall'assassinio, eccoci nudi, qui, nella chiesa di Saint
Paul, a dichiarare che amiamo, a non potere non amare, nel modo più
eretico e folle, personale e avventuroso, quanto vogliamo e possiamo. E,
se ci sarà occasione di odiare, odieremo.
Ma ora rivestiamoci. Il tempo della Messa è quasi finito e non voglio
che nessuno sappia di quanto è accaduto. Questa notte è stata
irripetibile: teniamola dentro la nostra memoria come un evento. Spegniamo
il fuoco e torniamo a vivere e a morire nelle nostre case. Non cerchiamo
mai di opprimere o di rassegnarci. Essere liberi, innanzitutto. Sorprendere
e meravigliarci. Mai dormire in se stessi ma addormentarsi fuori di sè,
per uscire dai nostri corpi, lasciando a chi resta l'insegnamento del sogno
e qualche gesto da ricordare.
Amen
3. Il libro dei riflessi: dalle carte segrete di Innokentij Annenskij (1842)
Ti ripeto
quello che ti dissi da sempre: io amo tutto ciò che in questo mondo
non trova né armonia né risonanza; odio gli scalpitanti cavalli
della trojka gettata a briglie sciolte nel bosco ma adoro l'eco della sua
corsa. Io non devo né urlare né difendere tesi: altri lo
hanno fatto meglio di me, con esiti deplorevoli.
Io scrivo
riflessi. Annoto schegge di frasi, pezzi di conversazioni, inizi di racconti,
finali di romanzi. Nei ginnasi di Pietroburgo non sanno nulla di me, io
sono il mite e dolente professore dall'occhio chiaro e dall'andatura
assorta. Sai perfettamente che il titolo del mio primo libro di poesie
era Canzoni sommesse e che lo pubblicai con lo pseudonimo di Nik-T-O, che
significa nessuno. Non ho vergogna a dirlo: lavoro da orafo i miei scrigni
e le mie urne; guardo e riguardo il bassorilievo con quell'Ulisse
senza testa, legato all'albero della nave piccola, i remi d'alabastro piantati
nel mare immoto, che finge, senza orecchie e senza naso, di udire le volgari
Sirene, che suonano una cetra che sembra di cera...
Mi chiamo
Innokentij: l'insonnia e il tedio delle stazioni russe sono il mio interminabile
inverno e la mia sconsolata innocenza. Lì, sotto cieli senza
colore, ho scritto le mie poesie migliori, di cui - lo spero - andrebbe
fiero Anton Cechov. Il mite Belikòv che si ammala e muore e viene
chiuso nella bara - ultimo e definitivo astuccio - con un'espressione di
serenità nel volto rassicurato dalla morte, mi assomiglia. Ma il
personaggio che amo di più è Jonjc. Da giovane, Jonyc incontra
la famiglia Turkin. Sente un'irresistibile simpatia per l'impetuosa e ardente
eloquenza di Ivan Petrovic, il padre: «Non c'è maluccio, vi
ringrazio umilmente, oh Micetta, oh pollastrella, addio, per favore!»
Prova tenerezza per Pavlusa, il servo quattordicenne, che si inginocchia
nella sala da pranzo e declama: «Muori, infelice!» Lo commuove
la voce di Vera Josifovna, la madre, che bisbiglia l'inizio di qualche
interminabile romanzo dove un'elegante contessa fonda biblioteche, finanzia
ospedali, adora pittori squattrinati. Si innamora del volto grazioso della
figlia, la mite Ekaterina Ivanovna, che suona il pianoforte in modo brillante,
eseguendo polacche e rondò, valzer e capricci, fantasie e
ballate. Poi gli anni passano. Jonyc invecchia, ingrassa, diventa ottuso
e pigro. Cura controvoglia i malati, gioca a whistle, bestemmia.
Ritorna dai Turkin e scopre un ridicolo repertorio di spettri: un attorucolo
rugoso col suo nauseante birignao, un servo rozzo che si getta a corpo
morto sul pavimento, un'insopportabile megera che blatera romanzi stucchevoli
e sentimentali con vocetta rauca, una zitella invecchiata che martella
note di ferro su un pianoforte scordato. Ecco, il terribile album di fantasmi
mi è entrato nel cervello: e io lavoro e scrivo cercando di restituire
la sua intollerabile malinconia, a costo di risultare sgradevole ai miei
rari lettori. Nel libro dei riflessi annoto schegge di Jonyc. La mia famiglia
è diventata la famiglia Turkin. Addio per favore! Micetta! Muori,
infelice! Il gelo avanza e la contessa...
Miserabili
stupidità. Piccole cose sommesse e atroci, che tutti dimenticano
sotto illusorie architetture. Io abbatto quelle colonne di carta e le vedo
come sono realmente: bisbiglianti e scorate, affannate e ridicole,
sono il mio diario di condannato e io il prescelto a cantarle, io che amo
l'invisibile, da sempre, dall'ultima fila della platea di un teatro di
guitti.
4. Come un sogno: lettera di Nathaniel Hawthorne a Hermann Melville (1864)
Carissimo
Melville,
sto per
partire con Pierce per un viaggio da cui non so se tornerò. Una
sola cosa mi è chiara: non voglio morire a casa. Non lo sopporterei:
so che tu non puoi farci nulla, ma ascoltami. Io non voglio morire a casa.
Sono certo che, quando io smetterò di vivere, Elizabeth farà
di tutto per dimostrare che sono spirato in modo tranquillo e normale,
come si conviene a un celebre scrittore. Ma non è così, Melville.
Io voglio coricarmi in un luogo lontano, all'aperto, con l'ombra del vecchio
Hawthorne sulla testa, con la sua voce a parlarmi delle terre, dei fiumi,
della forza dell'uomo.
Io non
sono mai stato forte. Quando scrivevo, a Salem, scrivevo tutto il giorno
e non uscivo che al crepuscolo: mi sembrava, in qualche modo, di essere
già nella tomba, con quel tanto di vita che bastava per avere coscienza
del freddo che mi intorpidiva e delle parole che mi servivano per descrivere
quel freddo.
L'idea
di essere stato da sempre un sogno, e non una persona reale, mi indusse
a lavorare presso la dogana di Boston, a contare mercanzie, a controllare
registri, a parlare con i commercianti; per la stessa ragione, a Brook
Farm, zappai la terra e caricai letame. Ma non bastò lavorare le
cose reali per diventare reale.
Quando
tu mi parlavi delle tue prodigiose avventure con i marinai dell'Oceano
Pacifico, io ti ascoltavo con attenzione: le tue storie mi rapivano, mi
entusiasmavano. Ma, quando mi spedisti il manoscritto del Moby Dick, tacqui.
Perdonami, Melville, ma nelle parole del tuo libro sentivo la rombante
retorica dello scrittore, un'enfasi fastidiosa e inopportuna, un eccesso
di citazioni sublimi: non ho mai amato quelle avventure letterarie in cui
i simboli sono troppo chiari e troppo dimostrati. Mi credi se ti confesso
che non so, e non saprò mai, per quale ragione io abbia scritto
La lettera scarlatta e cosa in effetti significhi quella A rossa.
Scusami
quindi, per certe reticenze. Il segreto che ci unisce e di cui non ho certo
bisogno di parlarti fa magnificamente a meno della letteratura, anzi la
colloca fra le cose meno importanti della vita di uno scrittore. Potrei
dirti, senza timore di sbagliarmi, che sono le opere degli scrittori a
fuorviare il segreto di cui sono custodi, a renderli patetici come animali
che custodiscono con eccessiva passione i loro escrementi.
Io vivo,
Melville, come se dormissi. Io so che vivo nel sonno e la mia vera preoccupazione
è non interromperlo, soprattutto quando scrivo: mentre invento un
racconto, è necessario che il sonno continui, anzi che acquisti
nuova intensità e nuova forza mentre le parole si dispongono sul
foglio a formare una storia.
Adesso,
fra poco, morirò. Non me ne dispiace affatto. Ma chi, come me, ha
dormito e sognato tutta la vita, in quale sonno entrerà dopo morto?
in quale imprevedibile e bizzarro sogno? Sarà diverso da quello
che ho vissuto su questa terra e in che modo sarà diverso? Mi causerà
dolore, delusioni, rimpianti, o una strana e mite allegria? Sono tutte
domande che non smetto di pormi. E' per questo che non desidero morire
a casa e che fra poche ore partirò con Pierce per una lunga passeggiata:
voglio trovare il luogo giusto. Chiudere gli occhi fra le pareti della
mia casa significa accettare che Nathaniel Hawthorne è quel corpo
immobile laggiù, un metro e mezzo di carne coperto da un sudario,
la testa illuminata da lampade e vegliata da mani giunte in preghiera.
Ma quel corpo non significa nulla, Melville. Proprio nulla di serio.
Vorrei
che tu mi capissi. No, non rispondermi. Non scrivermi più: le parole
già da parecchi giorni hanno smesso di avere un senso per me e questa
lettera non fa eccezione. Sopporto ancora per un istante il difetto di
essere vivo e ti mando il mio messaggio. Non ascolterò né
parlerò oltre. Addio.