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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Alfonso
Malinconico: Dies ad quem
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“Accostate
le imposte riposi
nell’attesa
a spirale
come dei
vecchi rubinetti d’ottone spanati:
giro su
giro, cauto,
con ansia
av…vi…tando un poco e ancora un poco
fino a
sentire con qualcuno dei sensi
quel clic
del giro a vuoto
come liberazione.”
(pag.21)
All’improvviso
avverti che non è poi per forza il nulla a magnetizzare le aspettative
della irrequietezza, ma anche il burrascoso rapporto che la realtà
accosta allo sgomento, quasi a suggerire o a sollecitare l’attesa (a spirale,
così come il DNA o come una scala senza fine) prima che la vite
possa perdere il segno.
L’autore,
e con lui anche il lettore, oscilla ancora una volta fra la nostalgia di
un pensiero totalizzante:
“Nell’atmosfera
del commiato
riproporre
enigmi,
enumerare
argomenti,
il fatto
storico, le virtù divinatorie.
E poi convincersi…”
(pag. 62)
e il rinculo
sempre più violento di una sciatta indifferenza degli eventi (storici
o personali) trascorsi lungo il cammino delle stagioni e delle frammentazioni
culturali:
“Non ho
più passi e già mi chiedo
chi sa
cos’attende quel dio del canto
quand’ecco
alle dita
un delicato
vibrare di pena discreto…
… e danza…e
canta
…e narra
ancora parole da umani” (pag. 97).
“Il cuore
e il nervo di quest’opera stanno, forse, nascosti – scrive Marcello
Carlino nella prefazione – in un giro di versi la cui marca semantica appare
come un calco del concetto agostiniano di tempo: di qua la memoria (e dunque
quanto è stato pensiero e , per effetto del pensiero, quanto viene
restituito dal passato e, nella rappresentazione del pensiero, si rende
renovatio rerum gestarum, di là l’attesa (e dunque, il progetto
del pensiero, che pensa il possibile, il futuro).”
“
Il sigillo, il sigillo!
E questa
scatola di pensieri
mi si colma
di ceralacca
come i
corpi di reato
nella stanza
dei corpi di reato.
Sul letto
del padre di Amleto
con acido
nitrico e gomma arabica
incido
nell’ombra la colpa imminente
perché
preparano camere
per una
veglia d’ufficio;
con l’odore
acre dei riti e del venerdì santo
si sprigionano
cori dalle fiammette delle candele” (pag. 35).
Qualcosa
che assomiglia ad un incubo, ma incubo vero e proprio non è. Qualcosa
che violenta gli eventi quotidiani, ma vera violenza non è. Qualcosa
che trasformi in danza scatenata le ansie, ma il muro dell’ignoto spezza
curiosità e desideri. Ogni cosa crea involontariamente un
limite contro la volontà e le aspettative dello scrittore, e tutto
riesce a parlare un linguaggio dal senso orgoglioso e spregiudicato, dal
rifiuto della arroganza alla lucidissima percezione della misura.
Alfonso
Malinconico vive sulla punta delle dita l’avventura umana e sociale, effervescente
ed ubiquitaria, trasformandola in una eccezionale avidità, in una
fervida curiosità, in un dichiarato desiderio di ulteriori esperienze,
in una incontenibile risata, che assomigli al furioso possesso della libertà
conquistata.
Gli dei,
se interrogati, confessano anche di non essere stati della creature innocenti,
gli uomini che hanno fatto la storia, se ricordati, dichiarano che non
sono poi stati tanto orgogliosi di incidere sul tempo, Boudelaire, Laforgue,
Cicerone, Van Gogh e Dostoevskij, Ninetta e Totò, se nominati, non
mostrano alcun dubbio sulla caducità e sulla poca certezza del giudizio
umano.
L’aver
scelto il senso della metafora per allontanare il clamore della periferia,
l’aver sottolineato che quel che conta è essere se stessi anche
nella poesia, il concentrarsi sul duro nocciolo della materia resistente
ad ogni mutamento per poter dire anche le cose indicibili, mette in evidenza
l’intimo universo lastricato di pietre turchine e iridescenti , di tensioni
esistenziali tormentose, ma già presenti in un futuro pensato, che
non ammette ricatti e insofferenze.