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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Per una
lettura di Riccardo Held
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0.
Questi paragrafi riuniscono tre testi di Riccardo Held, apparsi nello spazio
di “Versodove”: un dialogo con Fabrizio Lombardo (La tensione dell’ascolto)
e una poesia (Appunti di poetica) nel numero 8 (1997), un testo critico
(Risposta per appunti di un conservatore di sinistra) nel numero 11 (1999-2000).
Nel caso del terzo testo, “risposta” ad “un’inchiesta sulla poesia”, ma
anche costituzione di un rapporto tra i testi, da “appunti” in versi ad
“appunti” in prosa, più o meno ‘critici’.
1. La forza degli Appunti di poetica “si lega”, forse, “ad una precisissima
occasione esistenziale”, ma non esprime una “poetica”: a meno che la forma
(il suo modo di apparire, semplicemente) e il contenuto “esistenziale”
(ciò di cui la poesia, semplicemente, ‘parla’) non siano di per
sé l’enunciazione in atto di una “poetica”. La “poetica” è
consegnata anche all’esterno di questi Appunti, a partire dall’allegato
che è l’intervista con Lombardo; ne viene fuori – semplicemente
– un’idea pragmatica e non ‘estetica’ del ‘fare’ (poesia): la scelta di
un certo tipo di ‘contenuto’ è già una “poetica”. In altre
parole, la stessa scelta di “asemprare” (parole e argomenti; cfr. Dante,
Vita Nova 1.1) non può essere innocua o innocente.
2. Le scritture di “Versodove” (e in particolare gli Appunti di poetica)
non appartengono all’“intenzione antitragica” della Commedia di Dante (e/o
di tutta la cultura italiana, secondo la lettura di Agamben: Categorie
italiane. Studi di poetica, Marsilio, Venezia 1996): soprattutto se la
commedia è la “giustificazione del colpevole” Per simmetria, la
tragedia è “la colpevolezza” – o la colpevolizzazione – “del giusto”:
ma anche la dilatazione dell’in-giustizia ad ambienti ancora più
quotidiani: la famiglia degli Appunti di poetica (padre madre figlio) e
ogni forma di rapporto, quindi anche la possibilità di un linguaggio
flessibile e immediatamente ricco e condiviso; con-diviso nel senso più
normale, con una parte di dolcezza (seria) che lo salverebbe dal ciclo
del potere (la voce – allegorica, pubblicitaria, commerciale – del padrone:
cfr. Held nel testo del 1997). La “comunicazione normale” è tragica
nel senso della colpevolizzazione: “si trasforma di giorno in giorno sempre
più in ‘qualcosa’ di raro e prezioso, una felice coincidenza (come
quelle ferroviarie), un piccolo momento di conciliazione all’interno di
una strabordante sequenza di accadimenti comunicativi estraniati…”.
3. La “comunicazione normale” si riduce ad Appunti, che sono già
la dichiarazione di una “poetica”. Gli appunti in versi parlano di un quadro
familiare: un “padre amato, e martoriato padre”, una piccola madre “amata
quanto / una gola minuscola, affamata”, che “ama furiosamente il nido”,
poi “ombra di madre, / lavata in tutte le acque della pena”. La situazione
di (forse) malattia è associata a “qualcosa”: “certo non rilevante
cosa / che nessuno mai vorrà sapere” (comunicazione umiliata: “colpevolezza”);
“tutto perduto, via in un soffio, / perduta la sintassi, / congiunzioni
soltanto, / irrelate e scomposte” (la comunicazione è morta: suoni
e flatus vocis); con la conseguenza finale nel ruolo del figlio, che riassume
la coppia padre-madre e non la ama in sé: “e tu poi, ogni istante
della vita / a chiederti perché? cosa è accaduto? / E cerchi
di tenerli dentro insieme, / stretti in un corpo / e poi sapere, / che
nessuno sarà mai grande e forte / e poi sentire in ogni istante
/ farsi forte quella cosa, / che non ha nome, e poi volere / volere volere
organizzarsi per sparire”.
4. La poesia (la poeticità) è stata associata alla condizione
di figlio, cioè ad un rapporto: in questo caso il rapporto con il
passato (i genitori) che organizza dopo di sé un futuro (il figlio,
su cui i genitori: “l’altro e l’una / ad amarti, a volerti grande, forte”).
Il rapporto è nel linguaggio: la fine del rapporto (o della parte
affettiva del rapporto) contiene anche la fine di una certa funzione del
linguaggio, dentro l’illusione che una parvenza di rapporto (e di scambio)
sia ancora attiva. La demolizione del linguaggio di rapporto crea il giusto-colpevole
(“tremiti dell’agnello agonizzante”), che non solo ‘è’ tale ma ‘parla’
(a modo suo, “perduta la sintassi”) da giusto e da colpevole (“perduta
la sintassi” come Betocchi nel ritratto di Luzi: “perduto il suo vangelo”).
È come parla e parla come è, per cui il risultato è
ancora poetico (il testo che nasce è una poesia, con qualità
formali che lo rendono stilisticamente ‘alto’) e metapoetico (il testo
nato traduce e restituisce una vita privata, che sul piano universale è
uno dei tipi di vita: questo passaggio trasforma la vita privata in un
argomento su cui “dire”, cioè tentare la comunicazione).
5. La realtà del testo va separata dalla realtà della poetica
a cui il lettore deve arrivare. La dissociazione appartiene alla scena
(familiare) che è ‘dentro’ la poesia: così come la poesia
in sé non sembra il belato o il balbettio dell’agnello “irrelato”
(altri testi di Held non ancora raccolti sono apertamente deboli: gli inediti
nell’opuscolo del Festival Internazionale della Poesia di S. Benedetto
del Tronto, 1999). Lo stato di riduzione appartiene a un io ‘sognato’ nello
spazio (teatrale, rituale) della famiglia nella poesia; il testo in sé
rimane fermo in una sua purezza ritmica, stilistica e linguistica: in una
forma di stile che vuole essere alto e dolcemente ‘retorico’ (o dolcemente
enfatico: “Dimmi ombra piegata, / Chi era in grembo a chi e per quanto
tempo?”).
La “grammatofilia” ebraica (cfr. Donatella Di Cesare, All’ombra della parola.
L’aniconismo nella tradizione ebraica, in AA.VV., Nicea e la civiltà
dell’immagine, Aesthetica Preprint 52 [1998]) che porta a esaltare il sistema
rapporto-[amore, affetto…]-parola (scritta, orale) deve trovare una parentesi
di (quasi) felicità formale nella creazione di una ‘bellezza’. Allargando
ancora: se la riduzione della quantità e della qualità di
vita (e/o la riduzione del rapporto fra ‘me’ e ‘te’) contrae anche lo stile,
il testo non può reggere sul piano della ‘felicità’ stilistica:
né può augurarla, come talismano e antidoto, sul piano della
vita. La bellezza deve essere bella esattamente nello spazio in cui è
necessaria la “soluzione” comunicativa ‘onesta’ (cfr. la “famosissima frase
di Hölderlin” che Held traduce oralmente per Lombardo: “là
dove l’ostacolo è più grande, lì sta crescendo la
soluzione”). La salvezza (la purezza, la purificazione; Dio) parla.
6. Nella parola detta e scritta si realizza un dialogo tra ‘me’ e ‘te’
e tra ‘noi’ e Dio. Se nella parola Dio si rivela e si nomina di fronte
a ‘me’, chi parla anticipa la presenza della Presenza di Dio, nella sua
forma materna di Shekinà. La parola che ‘dico’ deve essere immersa
nello spazio in cui Dio-Shekinà manca: “Voglio solo dire in conclusione
la mia sempre più forte convinzione che nel presente, non sempre,
non in tutti i tempi, ma oggi, o la bellezza, la coscienza formale, la
scrittura, l’arte riescono a diventare la stessa cosa della voce della
povertà, della sofferenza, della esclusione, oppure non hanno alla
lettera nessun comprensibile senso” (1999-2000). Povertà, sofferenza
ed esclusione sono (saranno) lo spazio del Cristo ‘bello’.
8-9 ottobre
2000