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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Mariano
Bàino: Pinocchio
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“C’è il problema heideggeriano dell’Essere
nascosto-svelato e dell’arte come verità ad esso relativa….
Poi c’è la simulazione secondo Baudrillard…”
scrive Francesco Legnetti nella sua un po’ tortuosa prefazione,
ed involontariamente mi avvia ad una lettura
secondo il taglio da me costantemente preferito e perseguito:
il dicibile non detto dell’onirico, ed il
pronunciato non dicibile del preconscio.
“Oggi non so leggere, mi rotolo
giù da cime alfabetiche,
fra suoni
di pifferi, colpi di grancassa
sorti in fondo
a una lunghissima strada
traversa
che mi tuffa in una piazza,
a un luogo presso il mare…” (pag. 12)
Il primo impulso sgomina lo stregone con il
tam tam del mistero, bistrattato e reso invisibile dalla smania del
rivivere,
del diventare per un attimo il delirio accurato
delle negazioni, degli assurdi, del fluttuante, ove la musica, in una vaga
esattezza di ritmi, compone i colori disparati
in un arcobaleno di sconnessioni e ricostruzioni. Come se fosse davvero
la conclusione di una storiella da giornalino,
da bravo presentatore Mariano chiosa la ricomparsa dei burattini
in mezzo a maschere del teatro popolare ad
evidenziare il gusto dello svago e la leggerezza comunicativa, tranquillamente
proposta all’ombra del dettato personale.
A volte la mano insiste anche su sfumature
ove gli effetti trasgressivi feriscono, e corrono per una strana
velocità
di linguaggio, e assumono il senso del sospetto
esistenziale, anche laddove il burattino, per una questione etica o estetica,
descrive le tracce del tempo, o del tempo
stesso burla il correre sospetto delle lancette.
Già dalla presentazione puntuale e
rumorosa dei personaggi-maschere (in latino personaret ha tutto un suo
programma!)
si avverte il gioco di Bàino totalmente
teso a coinvolgerci in un scintillio di sotterfugi incuneati all’altalenare
dei fuochi
d’artificio dialettali, nella immersione delle
follie del mondo, nella frantumazione del sogno ad occhi aperti, per staccare
l’illusione dall’improbabile, per dischiudere
il sipario che ci separa “inconsciamente” dal quotidiano
Ogni maschera si presenta e viene presentata
con il ripetersi della sottolineatura “italiano” : maschera italiana, burattino
italiano, burattinaio italiano, coro italiano,
orologio a pendolo italiano, silenzio italiano, quasi a volere a tutti
i costi far intendere
che qui si gioca in casa nostra e la
recita ci appartiene fin dentro al sangue.
Ma i vari personaggi sono molto titubanti
del ruolo, e dichiarano di volta in volta “e il mio è il ruolo principale”
, prima
Arlecchino, poi Mangiafuoco, e infine lo stesso
Pinocchio, chiedendosi timorosi “ma chissà se sono abbastanza plateale”.
Si, plateale, proprio perché l’autore
individua nella coralità l’unico mezzo adatto a scompigliare il
fantasmagorico ed a ricomporre
il racconto dentro la contemporaneità.
Testimoniano le pagine di intermezzo in prosa,
chiave del simmetrico/asimmetrico che ci circonda, dimensione nella quale
Pinocchio
arranca per quella fatica dovuta al sogno-realtà
: “c’era una volta…un re? direte voi no il fatto che i figli da grandi
prendevano
il cappello & se ne andavano beh
tempi diversi ché i ragazzi di oggi occorrerà anche la pensione
dei padri, se questi riusciranno
ad ottenerla”, “& insomma gli fanno credere
che sia cosa facile accedere ai finanziamenti regionali per l’imprenditoria
giovanile & invece finisce in una selva
selvaggia braccato dalla coppia maramaldesca”, “stop il resto è
alla rinfusa cenni
a un’insonnia non vinta dall’azione dello
zolpidem…deriso dai poveri eventi del nostro reale & a un io che non
vuole vedere
il finale di nessuna partita & invece
dice vorrei fare la mia partita pulita solitaria immemore e dimenticarmi
di tutto abbandonare
questa terra che è troppo carica…”.
Ecco che questa poesia giunge al punto in
cui mena l’indistinto della rivisitazione onirica: un parlare breve e fragoroso,
ove la confusione degli oggetti indefinibili
conduce alla rielaborazione dell’oggetto stesso, per il balbettare della
parola e per una sorta
di rivendicazione fisica , più volte
inframmezzato da segni di parentesi senza alcun contenuto, atte a distruggere
ancora la serialità
delle parole, nel perenne tentativo che la
“afasia” incunea dentro il nostro inconscio. L’avventura umana di un Pinocchio
qualunque
rigenera quelle fibre appariscenti del mutamento
scenico, fuori dall’ansia intesa come patologia e dentro l’ansia intesa
quale forza
erosiva della favola : “dove il mondo scorre
( ) elettronico leggero a spandersi/ per linee interservizio ( ) sei fra
gli angeli ( )
del dire brevi frasi, che ridonano/ il facile
alla mente ( ) e le tue lune ( ) tutte le lune che domandasti…” .