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Vico
Acitillo 124
Poetry Wave Recensioni e note critiche Vitaniello
Bonito: Il segretario
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2.
Il vero contenuto (alto) è fuori dello stile realizzato qui (non
alto, anche nella sua approssimazione onesta al sublime): la nascita notturna
e mortale della poesia: “luce” – evocazione e presenza della luce che la
notte ha “acceso” per contrasto con il buio, e che nel buio è esaltata
(“Dovunque voce ma poi sottile / occhio di gatto / diaframma di buio”)
–; “lingua” (poesia) – che diventa occhio per simulare quello che nelle
parole non può essere vita del “volto”. Il testo è offerto
a colui/colei che abbiamo perso: “È la notte che ha acceso / questo
lucentissimo volto – e in te / nella preghiera annegando / chiedo mani
da baciare / e mani”, “voce perduta nell’anima / delle foglie crollate
nei vasi / voce di luce custode del sonno”, “non può che seguirla
la mente”.
3.
La differenza del buio (non luce) rende miracolosa ogni forma di luce;
la neve – allo stesso modo – deve essere copertura e purificazione, ma
anche possibilità di “riverbero bianco” che moltiplica la luce:
essere “luce” è essere presenza (Cristo), “testimoniare la luce”
(Gv., 1,7-8) è dire (Giovanni).
4.
Le due epigrafi impongono la presenza dell’“incorporeo”, che ha (è)
“vera essenzia” L’incorporeità, la luce (nella notte) e la neve
(sulle cose) collaborano a creare una disperazione tranquilla in cui ‘avviene’
una ‘cosa’ che riguarda l’amore e il modo di parlarne: “Oh sì bruciare
– / tabula nuda nel tenero petto / fuoco alle mani / dopo ogni vocale /
buio di tabula buio / apri il tuo cuore / ch’è rotto che muore /
nel sole”. L’incorporeo è una (quasi) inesistenza che è in
grado di apparire per contrasto con il corporeo e di condizionare la voce:
“sub pectore prende / stanza”, come il dio Amore (che – allo stesso modo
– è presenza e – nella finzione – persona che ride e piange; nel
ragionamento – sul piano della ‘realtà’ – è un modo di dire,
come ha imposto il capitolo XXV della Vita Nova).
5.
Il poemetto del Segretario rimane – allora – un ragionamento sui rapporti
e sulla verità dell’“incorporeo” (la poesia): il repertorio di immagini
“poetiche” e “poeticissime” – notte, deserta notte, oscurità, solitudine,
silenzio, profondo (Leopardi, Zibaldone, 1798, 2629) – deve collaborare
con l’intenzione che sposta il centro logico dalla poesia al cuore di chi
legge-vede la notte e la neve. In sé, la poesia isolata dal lettore
è una catena di visioni e “un gemito appena”, in cui la vera poesia
è il non-detto da trovare: resta da capire se questo modo di far
derivare il senso (?) dalla nudità ‘morta’ sia ‘arte’.
6.
“Neve” è anche uno degli spunti forti del lavoro di Enrica Salvaneschi,
in cui dice la meraviglia del bianco (non-vita) rispetto alla vita e al
sole.
Oppure
è il tema forte di un percorso più grande, che – tra l’altro
– sembra l’opposizione alla minorità dell’io esposto con Bonito
(“io sono / il segretario / il magro / ànsito della notte”): il
ciclo della neve nel
Documento di Rosselli (Neve, “Mille,
piccoli oggetti delicati, la”, Collasso; poi Neve 1973, che
contiene un’altra potenza: “Io non sono quello che apparo – e nel bestiame
/ d’una bestiale giornata a freddo chiamo / voi a recitare”). Proprio nel
rapporto ipotetico con Rosselli, la minorità del Segretario appare
– anche – legata alla contrazione dell’energia in uno stile che non vuole
(più) dire con potenza: allora appare la personalizzazione di quello
che Bonito scrive su Pascoli, per arrivare a ciò che è sempre
“nostro”: “La cantilena pascoliana è la rappresentazione di una
lotta col tempo attraverso il tempo della voce. È il tentativo di
riedificare la casa materna, nella voce materna, ed è allo stesso
tempo lo spazio sonoro da cui sentiamo di essere stati esiliati. È
la forma-vagito del nostro abbandono, del nostro essere stati abbandonati”
(La culla aldilà. Su Giovanni Pascoli, “Versodove”, 11 [1999-2000],
pp. 38-40).