Auditoribus
nostris non quicumque libri temere concedantur, sed ii dumtaxat, quos
quisque
audit in schola, vel qui exponi soleant ac possunt in sua classe. In
iis
etiam multitudo cavenda est, quae et opprimit ingenia et impedit ne
quotidianum
pensum commode reddatur. Ex recentiorum vero libris et pauci et magno
cum
delectu permittendi sunt. Faciendum itaque ut libri discipulis ad
arbitrium
magistri et praefecti studiorum concedantur.
Claudio Acquaviva
1. Auguri di Luther ai colleghi di Casalpurga
2.
Mondialcasa
3. El Topo
4. Lucien de Rubempré
5. Ritratto di Signora
6. La bella Otero
7. Fortunata
8.
Padre
Corvino
9.
Akakij
Akakievic
10.
L’uomo venuto dal nord
11.
Lucien de Rubempré e la cybercultura
12.
Marchesa
13.
Padre
Vertov
14. La
Signora
e i suoi amici
15. La
scuola
cresce
16.
El Topo sbarca in Sicilia
15. La
scuola
cresce
17.
L'uomo del nord scopre la luna
18.
Ficusecca
19.
Mission
20. Kimbo
21. Bephi
22. Nella terra di Lucilio
Cristo,
che Cristo al miiocardio! di
Antonino
Contiliano
1.
Auguri di Luther ai colleghi di Casalpurga
Comincerò con
gli auguri
per l’anno che viene o col chiedervi come ve la passate
ora che a Casalpurga non
c'è
più Luther Blissett a ricordarvi
che qual è si
scrive senza
apostrofo? Io sto bene, grazie,
e così spero di
voi, e
spero che l'anno nuovo non sia per voi
come quello del venditore
degli
almanacchi,
troppo ingenuo per essere
sentimentale
come deve esserlo chi ha
a cura
il futuro della specie.
Spero anche che qualcuno
di voi
in questi mesi
abbia imparato che non si
può
essere nello stesso tempo servi di cristo e di berlicche,
e che sul pianeta
c'è
più intelligenza di quanta se ne possa osservare
con il telescopio di
Casalpurga.
Per il resto, io, Luther
Blissett,
posso dire solo
che lontano da Casalpurga
la
terra appare un pianeta
come ce ne sono tanti,
dove c'è
chi viene e c'è chi va,
chi pensa che Bin Laden
sia un
attore di Hollywood
e chi dopo aver ricevuto
l'eucarestia
se ne torna al banco
con l'aria triste di chi
ha intuito,
senza esserne cosciente,
che il divino è
troppo
difficile per essere affare suo.
Del resto, troppo tardi
anch'io
ho capito che Casalpurga è solo una metafora
dello spirito, e che ci
sono
luoghi in cui una rosa è una rosa, e basta.
Ho capito che là
dove
ora siete il tempo ha smesso di essere l'enigma
per cui Maria fu
costretta a
partorire, per diventare, semplicemente,
l'indice, analogico o
digitale
che importa, dell'umana belluinità.
Non so se capirete
ciò
che dico. Un nuovo anno vi attende ,
verrà l'epifania,
carnevale,
un'altra primavera e un'altra estate
e un altro autunno e un
altro
inverno, facendovi un po' più vecchi,
ma sempre eguali, e
fedeli, nell'anno,
nel decennio e nel millennio,
ai ventenni che eravate.
Perinde
ac cadaver, si dice.
Io dico, senza pretese,
che i
morti hanno una dignità che i vivi non hanno,
che bisogna essere seri
come
può esserlo solo chi ha capito
che nel cane di Bush
è
racchiuso il nostro destino.
Non so se capirete
ciò
che dico. Così passo a farvi gli auguri:
A Mondialcasa auguro
che l'anno
nuovo incrementi con le sue vendite
dei prodotti per la casa
la sua
conoscenza di Seneca e Marguerite Yourcenaur
le auguro anche che il
marito
non giochi più con gli aeroplanini
A El Topo auguro di
trovare un
Alcibiade da amare
senza dover far finta di
aver
perso la testa per Frine
gli auguro anche di
laurearsi
finalmente alla Sorbona
A Lucien de
Rubempré auguro
di diventare dirigente di Casalpurga
e di non copiare
più articoli
da internet
gli auguro anche che la
befana
gli porti calzini grigioscuro e non rossi
A Fortunata auguro di
imparare
finalmente la lingua del sì
che è la lingua
che senza
nutrice dovrebbe pur parlare
le auguro anche che
qualcuno
le regali Silenzio di Cage
Alla Marchesa auguro
di tornare
dai suoi pastori d’Abruzzo
e di fare a tempo pieno
la figurara
che è mestiere antico quanto quello di Maddalena
le auguro anche che Fendi
rinnovi
finalmente il suo listino di borse
A Elsa Maxwell auguro
di trovare
un marito da sposare in una chiesa qualunque
e non in quella dove
Giovanni
incontrò Fiammetta
le auguro anche di
trovarsi sempre
al posto giusto nel momento giusto
Alla bella Otero
auguro di riuscire
a far capire a un diciottenne
che un triangolo si dice
così
perché ha tre angoli
le auguro anche che il
suo parrucchiere
ci metta più impegno la prossima volta
Ad Akaky Akakievic
auguro che
che le sue denunzie di reddito
siano trasparenti come lo
sono
i suoi verbali d'esame
gli auguro anche di non
usare
più lozioni per scurire baffi e capelli
A Matrioska auguro di
imparare
che la Sagrada Famiglia non l’ha fatta Godè
e che l'astronomia
è un
po' più complessa delle quattro chiacchiere da insegnare agli
alunni
le auguro anche che la
dietologia
faccia progressi decisivi
A Gertrude ed Egidio
auguro di
ascoltare peppino di capri
e di dargli retta quando
quello
canta che scopare non è peccato
mi auguro anche che
almeno una
volta lo abbiano fatto
A Lumaca auguro che il
marito
si converta all'ebraismo
e getti finalmente il
cappello
sul letto
le auguro anche di
continuare
a usare il giornale solo per sapere chi è morto
All'uomo venuto dal
Nord auguro
di comprendere
che anche il pompino
è
una forma d'amore
gli auguro anche che
abbia il
tempo per leggere il De Senectute di Bobbio
A Berruti auguro di
non mettere
più le mani sul culo delle tredicenni
ma di apprezzare il
fascino delle
ottantenni
gli auguro anche di
trovarle
più disponibili delle prime
A Buzzanca auguro di
non frequentare
più la fiera del sesso
ma il salone del libro a
Torino
gli auguro anche di
capirci prima
o poi qualcosa nelle riunioni che fa
A Ninetto auguro di
decidere finalmente
di che sesso è
e la smetta di fare
l'uomo con
le donne e la donna con gli uomini
gli auguro anche di
incontrare
un pierpaolo che lo faccia diventare ricco
A Padre Vertov auguro
di intuire
che Vacanze sul Nilo
non è poi un film
così
amaro come vuole far credere
gli auguro anche di non
tenere
più tra le mani le mani di chi incontra
A Felice
Sciosciammocca auguro
di essere meno rigido sulla schiena
perché per la
mente è
un po’ più difficile
gli auguro anche di
prendere
atto che il titolo di dottore oggi non si nega a nessuno
A Padre Corvino auguro
di ricevere
sulla sua linea privata
tutte le telefonate che
il suo
cuore desidera
gli auguro anche di
trovare un
condizionatore un po’ più efficiente del pinguino de longhi
Alla Signora auguro di
trovare
un amante più discreto di Luther Blissett
che non la costringa ad
andare
da padre pio a chiedere la grazia
le auguro anche che dio
abbia
ben altro da fare che dare ascolto a padre pio
E a me Luther Blissett
auguro
semplicemente
di non tornare mai
più
a Casalpurga
perch'i no spero di
tornare perch'io
no spero e mai non voglio
tornar là dove il
mondo
s'arravoglia e s'arrabatta
si sghemba schiterizza e
schizza
al fondo
ed è eccellente
l'om che
sè presume
d'aver le ali al volo e
alla
mignatta
ma matta sei tu
anche amore
mio
che di fellatio ed altro
che
non dico
riempi le mie notti e la
mia
mente
che nullo altro sente e
ad altro
tende
al punto dove il tutto
coincide
la possa la
fantàsia ed
anche il velle
che come sempre è
question
di pelle
se l'omo fa l'omino o fa
l'omaccio
e poi io del resto io mi
taccio
degli altri che de retro
vanno
avanti
che a pecora caprone o
altra
bestia
sè pongono al fin
della
ventura
che è dura mammia
mia
e com'è dura
la vita in questo mondo
che va
a fondo
e Mondialcasa urla forte
dalla
poppa
mettete là un bel
chiodo
nella toppa
e le risponde El topo
assai gentile
del polpo più
gustoso
è assai il mitile
ribatte la Marchesa
ch’è
sfaticata
qualcuno mi prepari
l’insalata
Lucien de Rubempré
ch'è
di corvetta
si guarda pensieroso la
brachetta
che la Signora sbircia di
soppiatto
perché si sa che
è
donna attenta al tatto
ma Luther mo' saluta e
corre
a nanna
auguri a Casalpurga e a
zia Giovanna
auguri agli amici ed ai
nemici
ma quando mai sarete un
po’ felici?
2.
Mondialcasa
Mondialcasa
insegna latino e greco, ma non distingue
Tacito
da Sallustio, nè sa che il lutto si addice ad Elettra.
Quanto
a Medea, è inutile parlarle di Cherubini, Callas o Pasolini.
Quel
poco
che ne sa sono quei pochi versi che un giorno ha letti e tradotti
aiutandosi
con le note per spiegarli il giorno dopo ad alunni che sarebbero
senz'altro
più
felici di vivere nel mondo che sarà che in quello che è
stato.
Mondialcasa
ha a cura la sua anima. E umiltà quanto basta
per
affidarne
la salvezza a un vecchio francescano
che
pensa
che ogni film, anche se fa ridere, è come la vita
che
è
triste, è triste, è triste e lo ripete
dalle
sette
di mattina alle undici di sera.
Del
resto,
quando si è innamorata di un'endocrinologo
che
non
si sa bene cosa facesse ad un esame di stato,
e
parlava
di lei alle cene con le sue amiche,
qualcuno
l'ha confortata che dopo venti anni di coniugale fedeltà
poteva
anche concedersi almeno la trasgressione del pensiero,
non
foss'altro
per il piacere di scoprire
che
il
pensiero esiste
e
fare
a meno di una morale
che
nemmeno
Ratzinger si sognerebbe di avallare.
Mondialcasa
fa la preside. E se si arrabbia inarca le ranici
per
rendere
meno credibili le sue insicurezze e avere
quel
po'
di obbedienza che il marito quando gioca con gli aeroplanini
è
restìo a concederle. Altre cose non le concede.
Anche
quando
non gioca con gli aeroplanini.
Perciò
Mondialcasa è così triste. E il marito anche.
Tanto
che
quello che lei pensa sia la sua migliore amica
e
che l'accompagna
a casa ogni giorno
quando
le lezioni sono finite
non
ha
trovato per suo marito e sua figlia vezzeggiativi più persuasivi
di
Mortimer
e Mortisia.
Ma
Mondialcasa
non lo sa e le vuole bene
e
tre volte
l'anno
ogni
volta
che organizza riunioni con le sue colleghe
le
regala
un ventilatore a pile e presine colorate per la cucina.
L'amico
la ringrazia. E Mondialcasa le è grata. Ed è felice,
perchè
ci vuole così poco ad essere felici
quando
non hai letto nè Tacito nè Sallustio
e
sei convinto
che se non muovi il mondo
quello
se ne sta lì tranquillo e fermo
e
non rimbalza
come la palla
che
in
un vecchio film
un
vecchio
dittatore con il volto di chaplin
cerca
inutilmente
di addomesticare.
3.
El Topo
El
Topo
ha studiato alla Sorbona, o almeno così ha fatto credere
il
giorno
in cui qualcuno pensò che fosse adatto a far comprendere
ai
giovani
di q uest’età così particolare che i poeti latini e greci
hanno
con
la natura un rapporto che si sottrae al sentimentalismo
patetico
che rende i nostri poeti illeggibili, e poco godibili.
El
Topo
veste sempre in nero, e parla con tono severo, e puntuale,
come
se
avesse sempre davanti un libro, di cui con precisione
e
rigore
ripete alla Pierre Menard versi e capoversi.
E
guai
se un diciottenne un po’ birichino gli ruba la battuta
o
gli anticipa
la pagina di dopo. Si arrabbia, riferisce tutto
a
Mondialcasa
invitandola a prendere provvedimenti,
non
sopporta
chi è innamorato dell’originalità
e
non è
disposto ad accettare, fosse solo perché ha diciotto anni,
che
tutto
è scritto, e la voce non può che limitarsi
ad
una
sublime ricapitolazione della verità,
come
volevano
nel Medioevo e oggi, più discretamente,
suggeriscono
le vestali dello spirito dell’epoca.
El
Topo
è un omosessuale. Lo sanno tutti. Sanno che è in grado
di
apprezzare,
con passione che mai non muta, la sfrontatezza
della
giovanezza
e la crudeltà feroce di chi ha imparato
che
in
amore è sempre lo stesso, anche se a farti venire
la
vertigine
è lo sguardo di uno che ha la barba come te.
Avesse
meditato su Die Tot im Venedig avrebbe capito
che
Platone
amava troppo le donne e Aschenbach
mai
e poi
mai avrebbe sfiorato Tadzeus nemmeno con un dito.
Ma
El Topo
non ha letto Platone, né Mann
e
ignora
chi sia Erwin Rodhe. E’ omosessuale, e basta,
di
quelli
che fanno di tutto perché il mondo si convinca
che
hanno
il pallore dell’asceta, e di chi possiede
disciplina
ed equilibrio.
El
Topo
non ha studiato alla Sorbona, e nessuno più lo crede.
Consuma
le sigarette fra le dita, come una donna, e come una donna
aspira
il fumo e lo libera nell’aria. Ripete ciò che legge,
e
legge
ciò che ripete. E ora che è nella terra
dove
è
il profumo degli aranci e il principe di Salina
intuì
che per non cambiare nulla tutto deve essere cambiato,
non
gli
resta che spiare, dalla fessura di una persiana,
un
corpo
nudo di maschio che come un dio
accende
il suo desiderio, e gli ricorda,
senza
che
lui possa comprenderlo,
che
ciò
che è bello non può essere posseduto.
4.
Lucien de Rubempré
Lucien
de
Rubempré vive nell’hinterland
E
questo
non gli sta bene, no, non gli sta proprio bene.
Lui
pensa
che l’aria della città rende liberi
e
sarebbe
contento di trovare
un’annetta
meier che gli portasse in dono
un
orgasmo
fuori misura e l’ebrezza della trasgressione.
E
si veste
come gusto e cultura gli consentono,
ignorando
che i calzini rossi sono amati da ruffiani
e
sagrestani
e che baffi e pizzetto li aveva
anche
Picrochole,
quello di Rabelais,
che
nei
fumetti degli anni cinquanta
alimentò
i sogni dei bambini che nel ‘68
avrebbero
sognato di cambiare il mondo
ma
che
cambiarono solo il loro modo di essere infelici.
Lucien
de
Rubempré fa parte del comitato di salute pubblica,
che
si
preoccupa dove lavora di vigilare
che
i vizi
privati non restino solo privati
ma
siano
pubbliche virtù e certifica che le fantasie
sessuali
degli operatori culturali
siano
conformi
alle direttive dell’Opus Dei.
Del
resto,
ha poche occasioni per dimostrare
che
anche
lui ha letto quello che si deve leggere
e
che pilucca
da Aristotele come dall’uva
che
non
è mai matura.
Lucien
de
Rubempré ha un gemello. E ci vorrebbe un plutarco
che
scrivesse
vite parallele ad usum delphini
per
spiegare
a chi legge che è sempre possibile intendersi
per
chi
crede nelle sinergie dello spirito e della stupidità.
Anche
se
il dna è diverso e chi viene dai monti
ha
lo sguardo
acuto e diffidente che mai potrà avere
l’uomo
della pianura costretto a far coincidere
l’orizzonte
con il palo della luce elettrica
a
dieci
metri dalla sua casa.
Così
accade che Lucien de Rubempré continui a sognare la torre Eiffel,
senza
mai
aver udito lo strazio di Carmelo Bene
che
grida
con verdiano entuasiasmo: A Parigi, a Parigi!,
mentre
il gemello difenda da pierrot lunaire
il
diritto
a viversi la vita come se fosse l'incubo di un idiota.
Ma
questa
è la storia, e neanche Honoré avrebbe disdegnato di
parlarne.
Neanche
Gogol che certo di anime morte ne capiva. E Majakovskj
che
fece
di una pulce l’anima barocca del partito.
Ma
Lucien
de Rubempré conosce poco di Honoré e Nicolaj e Vladimir
e
non può
consolarsi con la poesia, che gli è rigorosamente estranea
come
è
giusto che sia per chi pilucca da Aristotele come dall’uva
che
non
è mai matura.
Il
fatto
è che vive nell’hinterland
e
questo
non gli sta bene, no, non gli sta proprio bene.
Per
questo
se ne andrà a Parigi
e
ascolterà
una guida turistica che come lui non sa chi è Violetta
e
la Callas
mentre spiega Courbet e l’origine della vita.
Guarderà
stupito la cattedrale di Rouen e la Senna che scorre pigra.
Ricorderà,
peû etre, Juliette Greco, Yves Montand e che in terra di Francia
è
d’uopo la soupe d’onions, la côte de boeuf e un’escursione
a
pigalle
con la nonchalance di chi ha da tempo superato
le
turbe
dell’intelletto e del basso ventre.
Poi
ritornerà
nell’hinterland e racconterà al gemello
che
a parigi
sì che si respira l’aria della città che rende liberi
senza
accorgersi
dello sguardo acuto e diffidente
di
chi
sui monti ha appreso che la vita
è
arte drammatica e sublime.
5.
Ritratto di Signora
La
Signora
ha letto Possessione di A. S. Byatt, e ne è entusiasta.
Lo
consiglia
a tutti: parenti, amici e colleghi e tutti credono
che
Randolph
Henry Ash sia esistito davvero e ne cercano le tracce
nelle
librerie
e su internet. Ma lei sa che non c’è differenza
tra
un
poeta che è esistito e un poeta che un altro poeta ha inventato.
Sa
bene
che in poesia, come in amore, le bugie rendono più bella,
e
invidiabile,
l’esistenza. E si diverte a parlare in giro
di
Ash
che scrisse Il giardino di Proserpina e credeva
che
ai
limiti del vecchio mondo se ne aprisse uno nuovo.
Passa
così
il tempo, che le resta, non molto,
fino
al
giorno in cui si ricorderà
che
Ronsard
era un poeta molto acuto, ed esperto del mondo.
La
Signora
è in menopausa. E ora che i figli le ricordano
che
ha
già dato quanto doveva alla specie e nulla può più
dare,
perchè
la natura non ha pietà per la vecchiaia, può leggere
solo
libri,
che le ricordano che un giorno anche lei
ha
amato
un poeta, e un poeta l’ha amata,
che,
una
sera che aveva un po’ bevuto,
immaginò
che il libro che aveva scritto sul loro amore
l’avesse
scritto un poeta che non era mai esistito
e
fece
credere al mondo che lui fosse un po’, o molto, folle
e
lei la
Signora una donna come ce ne sono tante,
che
per
sua sfortuna amò un poeta
che
credeva
che la letteratura fosse la vita, e viceversa.
La
Signora,
ogni mattina, va al bar. Ma evita accuratamente
di
frequentare
quello in cui potrebbe incontrare
il
poeta
che un giorno scrisse versi in cui il dolore
è
più forte del pudore. E si porta a fianco un cagnolino,
un
collega
con un po’ di peli sotto il labbro inferiore,
che
le
dà a parlare e consente al suo sguardo
di
non
incrociare gli occhi di Ash,
quegli
occhi in cui non può più mentire alla sua vecchiaia
nè
chiedersi più chi è la più bella del reame.
Così,
non le resta che leggere Possessione di A. S. Byatt,
e
consigliarlo
a tutti: parenti, amici e colleghi, e poi attendere a sera
che
il
marito ritorni a casa, dopo avere portato a spasso il cane,
e
si sieda
a tavola, per la cena, e parli con lei
di
come
è buffo questo mondo dove si pubblicano libri
dove
i
poeti inventano poeti che non sono mai esistiti
e
trovano
anche chi li legge, e li consiglia
a
parenti,
amici e colleghi.
6.
La bella Otero
La
bella
Otero non è bella e di Otero non ha né gli occhi
né
il corpo con cui ricordare al maschio che un giorno nella foresta
non
avevamo
bisogno dei preliminari che prescrivono i manuali
del
moderno
erotismo. Certo, lei si sforza di rendersi credibile,
racconta
agli alunni le acrobazie di cui è capace anche
nell'abitacolo
ristretto di un'utilitaria, i voli d'angelo di cui solo l'alcova
può
testimoniare. E per provare che ogni corpo ha un'anima
a
quello
adeguato e di essere in grado di mettere insieme
tradizione
e rinnovamento, istino e super-io, morale e trasgressione,
ovvero
che vizi privati pubbliche virtù, quando parla in pubblico
ha
sempre
l'aria compunta di chi ricorda che il mondo soffre
ed
è
nostro dovere dar da bere agli affamati e rendere intelligenti gli
stupidi.
Questo
per lo meno si intuisce dietro le parole,
che
sembrano
ricordare l'autore del Tractatus quando ci ricorda
che
il
linguaggio è come un labirinto che vieni da una parte
e
ti raccapezzi,
giungi da un'altra e non ti orienti più.
Così,
anche quando dice oggi piove a chi ha un minimo di cultura
viene
da
pensare alla logica degli stoici e chi non ce l'ha
non
ci
capisce nulla
La
bella
Otero insegna matematica, che è arte sublime e del demonio,
ma
non
ha mai letto ciò che ha scritto Musil sul numero immaginario
né
conosce il problema geometrico delle bolle di sapone.
Si
limita
a disegnare con il gesso sulla lavagna
quelle
formule che il libro propone con maggiore chiarezza tipografica,
indispettendosi
se il giovin signore le dimostra con il suo disinteresse
che
la
matematica inquina lo spirito e rende la vita noiosa.
Del
resto,
ha poche occasioni per dimostrare che la logica non distingue
un
sesso
dall'altro e che un disadorno ammanto non impedisce
alla
virtù
di lucere e riscaldare il core.
La
bella
Otero canta. Canzoni della sua terra, dove cantarono le sirene
e
il poeta
d'andes nascose con l'uovo il destino della città. Canzoni
che
a cantarle
ad un datore di lavoro che parte per altra sede
ti
viene
da pensare che poi hegel non aveva poi compreso molto
dei
rapporti
tra servo e padrone. Ma canta bene, però,
la
sua
voce è melodiosa e impostata con sentimento,
c'è
l'anima, il cuore e tutte quelle parti del corpo,
esofago,
cistifellea e coratella che entrano in funzione
quando
mangi troppo e non sei troppo lucido.
E
quando
è sera, quando a casa chi ti è vicino non s'accorge
che
tu
sei lì vicino, non le resta che cercare in una chat
quello
che cercano tutti quelli che in una chat
si
sforzano
di dimenticare che non si sfugge a quell'io
che,
come
voleva l'antico poeta, nessuno di noi
può
pensare di perdere per strada,
quasi
fosse
un ombrello che, come tutti gli ombrelli,
tocca
a
tutti di perdere a ripetizione e nei posti più impensati.
7.
Fortunata
Fortunata
ignora che di lei già parlò Petronio. Ignora anche che
Binswanger
dimostrò
che un linguaggio che cerca i preziosismi spesso nasconde
la
trivialità.
Sculetta: quando era un po' più giovane usava
calze
a
rete e tacchi alti quanto basta per dimenticare che siamo nani
sulle
spalle
dei giganti. E ora che è un po' più vecchia,
mescola
il veneto col partenopeo, l'english con l'yddish, l'hystorical
background
con
le
più avanzate tecniche dei moderni bignami.
Così
che non sai mai in quale parte del mondo è nata, e non ti resta
che
apprezzare
le virtù muliebri che dalla ceramica alla culinaria,
dai
balli
latino-americani al tango che Jorge assunse a simbolo
del
mondo,
confermano che la donna è un mistero
che
se
lo conosci lo eviti. Va a teatro, dove si destreggia con disinvoltura
tra
fescennine
licenze plautine e le paludate magniloquenze
di
William.
Ma non disdegna il cinema, ama muccino e wenders,
alvaro
vitali e buster keaton: da tutti prende il meglio,
perché
chi è saggio fa a meno di paraocchi e ideologie
e
non sa
cosa farsene del pensiero, che ti fa infelice
e
meschino.
Fortunata
ama viaggiare. Ha visto le bianche scogliere di Dover
e
la terra
dei sicomori, dove Giuda tradì con dio l'uomo
che
non
sarebbe mai stato. Ha visto Medjiugore, dove le statue piangono
dinanzi
ad uomini che non sanno più né piangere né ridere
e
hanno
bisogno di miracoli per non sembrare ridicoli.
Così,
ora che la primavera tarda e i mandorli sono ancora secchi,
se
ne va
nelle contrade avare della Catalogna, dove
tra
ramblas
piccole e grandi si proverà ancora una volta
a
ricordare
com'era quando più giovane e snella
con
calze
a rete e tacchi alti ignorava che i giganti
non
sanno
cosa farsene dei nani sulle spalle.
Vedrà
il flamenco, parco Guel e la Sagrada Famiglia; mangerà il
gazpacho
e
la paella
innaffiata con la sangrìa che rende euforici e meno acri.
Poi
tornerà
a casa: con un rotolo di cotone in più nella sua collezione
di
donna
amante di taglio e cucito, con una cartolina
dell'Avenida
Generalissimo Franco e la convinzione
che
la
vecchiaia è solo uno stato mentale.
8.
Padre Corvino
Padre Corvino è
un uomo
di mondo. Come Ignazio che giovane ebbe modo
di sperimentarne i
piaceri e
passò il resto della vita ad impedirlo agli altri.
E lui mai ha rimpianto il
giorno
in cui decise che essere soldato di Cristo
poteva garantirgli non
solo l'aldilà
che nessuno sa se ci sia davvero,
ma anche l'aldiqua che
è
cosa di cui nemmeno il più acuto degli scettici
può dubitare,
perché
tutti prima o poi soffriamo per una carie
o per la puntura di una
zanzara.
Del resto, lo ha anche
pubblicamente affermato:
mai
lo ha rimpianto, e ha additato come modello
ai giovani d'oggi
così
poco sensibili al sacro e alla tenerezza,
Santa Teresa del Bambin
Gesù,
che fu donna attenta
ai segni del suo tempo e
capì,
con intuito tutto femminile,
che dinanzi ad un bambino
che
nasce tace l'invidia del mondo
che da adulto lo
manderà
a morte. E non a caso, chi s'intende
del diavolo e
dell'acquasanta,
l'ha fatta dottore, perché pervenne alla sapienza
senza mai avere studiato.
Come
fanno appunto i giovani cui Padre Corvino
ricorda che la
semplicità
è dono impagabile, ma che è dubbio, però,
se mai, così
facendo,
perverranno a una sapienza che li condannerebbe
all'infelicità.
Padre Corvino è
un uomo
di mondo. E sa bene che non bisogna disprezzare
quanto di buono questo ci
passa,
perché ogni giorno ha la sua pena,
e tutto prima o poi
finisce.
Ha letto Sofocle e non può ignorare
che un uomo può
essere
felice per sessantanni e poi in due giorni
pagare gli interessi su
ciò
che ha goduto. Ha letto in Santa Teresa del Bambin Gesù
che questo è
il cielo,
questo è il mio destino e ha intuito che bisogna vivere
il proprio tempo, senza
essergli
ostile. Non per altri motivi, egli che è uomo di mondo,
di questo mondo, non
può
non assecondarne il gusto ed essere attento
ai mutamenti delle
tecniche,
che ci consentono di attraversare l'aldiqua senza l'ansia
di non farcela che prova
chi
pensa che allo spirito poco quelle si addicano.
Così ha avuto cura
di
attrezzare la stanza dove dovrà addormentarsi e svegliarsi
di tutto quanto
può consentirgli
di non rimpiangere il giorno che decise
che per impedire agli
altri di
sperimentare il piacere bisogna conoscerlo.
Ha fatto fare e rifare il
vano
doccia, riverniciato a fuoco l'auto, comprato lampade,
e mobili di massello, e
un cellulare
con cui telefonare, fotografare, filmare
e navigare su internet,
ha fatto
allacciare una linea su fibra ottica
che bypassi il centralino
per
consentire al mondo di conservare
l'anonimato quando ha
bisogno
di lui e lui ha bisogno del mondo,
riempito i suoi cassetti
di collane,
bracciali e monili
che gli ricordino ogni
giorno
le tentazioni del Maligno,
perché un soldato,
che
lo voglia combattere,, deve pur sapere quali armi usa.
Padre
Corvino è
un uomo
di mondo. Egli sa che prima o poi
dovrà abbandonare
quella
stanza, perché un soldato, specie se di Cristo,
è chiamato a
combattere
dovunque ci sia bisogno di lui.
Forse conoscerà
altre
terre, forse ritornerà là dove profumano gli aranci
e Archimede ebbe morte da
un
soldato che non lo conosceva.
Forse questa sarà
l'ultima
stanza da cui mai avrà guardato il mondo
da quella distanza
cosmica, di
cui parla Ignazio e dove più semplicemente
si addormenterà
senza
mai più svegliarsi
lasciando vano doccia,
auto riverniciata,
lampade, mobili di massello, cellulare,
fibra ottica, collane,
bracciali
e monili ad un altro soldato di Cristo,
che attento al gusto del
suo
tempo farà rifare tutto daccapo.
E il giorno dopo
additerà
come modello a giovani poco sensibili al sacro e alla tenerezza
Santa Teresa del Bambin
Gesù,
che senza rimpianti lasciò il mondo
senza mai averlo avuto.
9.
Akakij Akakievic
Akakij Akakievic cerca
casa. Come
Totò. Ma questi sapeva ridere
di se stesso, e per finta
o perché
era vero aveva lo stile
di un principe, fosse
solo della
risata. Akakij Akakievic, invece,
è solo un
professore di
materie scientifiche che pensa
che l’universo è
tutto
chiuso in una calcolatrice
ed è fatto di due
più
due o quattro diviso due
o quattro per due. Anche
quando
scopa
calcola esattamente il
tempo
che intercorre
tra erezione ed
eiaculazione,
lo divide per due, lo
moltiplica
per un coefficiente fisso
che solo lui conosce, e
anche
la moglie ignora,
e alla fine può
stilare
tabelle, statistiche, percentuali
che gli consentono di
convincersi
che il sesso è una
faccenda
solo per chi si muove
obbedendo al metronomo
nascosto
nella materia
dell’universo e nei
testicoli.
Akakij Akakievic cerca
casa. Ne
visita una ogni trentasei ore.
Si presenta puntuale
all’appuntamento
del venditore,
con in mano una bussola
per stabilire
in che parte
dell’appartamento sorge
il sole,
e in che parte
la luna ammicca
inutilmente ai
suoi sogni.
E non ne ha trovata una
che gli
vada a genio.
Questa è troppo
piccola,
quella è rumorosa,
quest’altra poi troppo
vicino
allo svincolo delle strade
che dalla città
menano
a quella provincia
in cui mai lui
abiterebbe, perché
chi è nato in città
ha una percezione dello
spazio
più articolata
di chi è topo in
campagna
e in campagna vuole morire.
Non ha mai letto
Bachelard, ma
è come se lo avesse fatto.
Non ha mai letto Cassirer
e non
gli importa se non lo ha mai fatto.
Del resto non ha mai
capito perché
Einstein in tutti i poster
è venduto con la
lingua
che fa sberleffi. Si limita a sorridere,
a pensare che una mela
che cade
sulla testa
quella sì è
una
cosa concreta,
a usare i computer per
giocare
a flipper
e a redigere tracce di
fisica,
e matematica,
su cui fare esercitare il
giorno
dopo chi a diciottanni
non sa cosa farsene di
mele che
cadono sulla testa
ma ha imparato che ad un
professore
di materie scientifiche
non bisogna mai
disubbidire.
Akakij
Akakievic cerca
casa. D’inverno
va in giro con il cappotto,
e con i baffi. D’estate
con i
baffi, e senza il cappotto.
E se qualcuno gli chiede
che
cosa ne pensa del mondo
lui risponde che questo
è
affare da filosofi,
e che un uomo, che sia
per giunta
anche un matematico,
ha la
responsabilità morale
di indicare alle nuove generazioni
come non perdersi in una
vita
in cui a tutti tocca prima o poi
di cercare una casa senza
mai
trovarla.
10.
L’uomo venuto dal nord
L’uomo
è
venuto dal nord, dalle terre in cui Calvino
aveva
le
visioni di baroni rampanti e visconti dimezzati,
e
Montale
contemplava falchi alto levati e rivi strozzati.
Ma
poi
crebbe nelle nebbie di una Milano che fu tutta da bere
e
apprese
da Ignazio che la vita è feroce, se non la rendi
più
digeribile con quelle bugie che solo le donne e i preti
ti
sanno
spacciare quasi fossero indulgenze per questo millennio
e
quelli
che verranno.
L’uomo
è venuto dal nord, e ricorda allampanato com’è
un
max
von sidow che non ha mai conosciuto il protestantesimo
e
deve
accontentarsi di un mastai come tanti e di avere
come
amici
leghisti e gente di arcore.
L’uomo
è venuto dal nord e non sa cosa vuol dire mangiare uva
puttanella,
o
avere
a che fare con gattopardi costretti dalla provvidenza
a
fare
le fusa come gatti di casa un po’ melanconici.
Usa
parole
che il marchese Puoti non avrebbe disdegnato
e
se ne
frega del Devoto-Oli e dell’impertinenza
della
gente
del sud che usa il dialetto come se fosse una lingua
e
la lingua
come un idioletto cui solo Gadda saprebbe
rendere
giustizia.
L’uomo
è venuto dal Nord e non sa che il vento del sud
rende flasques
come voleva Paracelso e predispone ai sogni
cui
tutti
un po’ somigliamo, specie quando smettiamo di sognare.
L’uomo
venuto dal nord ha smesso di sognare.
E
si entusiasma
se ricorda a gente di diciottoanni
che
ignazio
prima di avere fede era un paggio di corte
e
conobbe
la violenza carnale. Intuisce che in un corpo
di
donna
stuprata s’annida il fascino della specie,
e
del potere,
che s’arrende a dio
solo
per
non arrendersi dinanzi agli uomini.
Ma
l’uomo
venuto dal nord ora è vecchio,
e
non ce
la fa più a ricordare ciò che non vale la pena di
ricordare
e
anche
se questo è bene, lui non lo sa.
Così,
alle otto dice a e alle otto e cinque dice b
e
non sa
più impedire al suo volto di dire quanto disprezza
l’una
puttanella
e i gattopardi, smentendo le labbra
che
troppe
cose hanno mandato a memoria
per
poter
dimenticare che nelle terre del sud
aprile
è un mese crudele quanto gli altri.
L’uomo
è venuto dal nord
e
non capirà
mai che i punti cardinali
li
ha inventati
dio perché gli uomini
la
smettessero
di infastidirlo.
11.
Lucien de Rubempré e la cybercultura
Lucien
de
Rubemprè è esperto di cybercultura. Ne sa poco lui di
computer,
ma
quanto
basta per assemblare sulla rete con cut e copy, dai siti opportuni,
quei
quindici-venti
periodi sufficienti per un articolo da pubblicare sul giornalino
della
parrocchia.
Del resto, non occorre molto di questi tempi perchè gli altri
dicano
è
un uomo di cultura, uno attento alle sinergie dello spirito e della
materia.
Un
animale
politico, insomma, che prima o poi te lo ritrovi, con serietà e
devozione,
a
rappresentare
la voce del popolo e anche di dio, se occorre.
Lui
ne
va orgoglioso, di questa sua saggezza e giudica maestrine delle
elementari
o
talenti
ingegnosi ma bizzarri quelli che si sforzano, con dolore e ansia,
di
mettere
insieme il sogno e il mondo così com'è.
Ed
è
anche umile, sempre quanto basta, per sedere,
lui
esperto
di cybercultura, nei banchi di un corso di informatica
dove
ti
insegnano, senza sapere ciò che stanno facendo, che il computer,
come
la
vita, obbedisce alla logica dell'on-off e non a quella hegeliana
dell'aufhebung.
Non a caso, tranne quando è raffreddato, ha sempre un sorriso
per
tutti:
se ha un impegno veste con giacca, cravatta e calzini rossi;
se
può
concedersi un giorno di minore concentrazione, con il giaccone
che
gli
ha regalato un alunno che non poteva fare altrimenti.
Lui
è
fatto così: ama la concretezza, che ti ricorda che se fai
politica
è
il particulare che devi seguire, senza cedere al fascino di
quelle
idee
che
sono
buone per insegnare filosofia e farti avere un reddito fisso al mese
ma
non
sono sufficienti a farti da guida nel casino del mondo.
Ama
anche
viaggiare: Amsterdam, Parigi, Praga, e ora Berlino
dove
alloggerà
in Alexanderplatz che è anche il titolo di un romanzo
che
non
ha mai letto, e non ha nessuna intenzione di farlo.
Tanto,
leggere non è indispensabile per chi con con cut e copy,
su
internet,
dai siti opportuni, può assemblare un articolo da pubblicare
sul
giornalino
della parrocchia e inventare un mondo
che
è
il riflesso speculare di quello in cui c'è ancora
chi
crede
che sia umano troppo umano obbedire a dio.
12.
Marchesa
Marchesa è nata
là
dove un tempo acuto fu l’odore delle capre
e a settembre i pastori
lasciavano
gli stazzi per un mare
che nulla più
conserva
del verde dei pascoli cui somigliava.
Là fu bambina,
là
arcani mondi arcana felicità fingeva al viver suo,
e città dove la
bellezza
non si misura in pienezza di forme
e di attributi, ma gambe
esili
e naso adunco trovano asilo, e gloria,
e uomini che hanno
scordato la
lezione della natura
né più
sanno cos’è
una nutrice. Ora lei non ricorda
la casa dove più
nessuno
è rimasto, né tiene più il capo o la coda
del tempo che gira senza
pietà.
Ora lei, Marchesa, ama la ceramica,
le borse di Fendi e un
profumo
Aromatic Elixir con cui si sforza
di rievocare annusamenti
e notti
arabe a chi, un po’ triste sulla poltrona,
l’attende a sera per
mangiare
un brodino e poi addormentarsi
davanti alla TV. Lei sa
anche
che a un simile destino
non si sottrasse la bella
addormentata
nel bosco
e ha imparato sulla sua
pelle
che non bisogna mai chiedere ad un impiegato di banca
di diventare il principe
filippo
né tanto meno l’uomo di girgenti cui somiglia
per il pizzetto che rende
omaggio
al tempo che gira senza pietà.
Del resto, dopo i
Greci
anche Jodorowski insegna che le figlie ripetono
il destino delle madri ed
è
triste per un uomo avere moglie e figlia
che amano ambedue lo
straniero
che le seduce e ambedue
rendono onore
all’Aretino, alla
Pippa e alla Nanna.
Marchesa non ama molto
il lavoro.
E a Casalpurga tutti lo sanno
e si dicono l’un l’altro
che
è una vera ingiustizia che lei sia sempre pronta
a rosicare il minuto dal
dì
feriale per farlo festivo, quando poi guadagna
come tre di loro messi
insieme
e non si sa perché. Qualcuno sospetta
che è per via del
marito
esperto in Mibtel e in Down Jones;
qualcun altro parla
genericamente
di un prelato che non ha mai disdegnato
la seduzione del mondo;
altri
ancora, più semplicemente,
e senza mai aver letto
don Lisandro,
sottolineano che la storia
è la più
tragica
delle esperienze umane, perché ai più deboli
non resta che subire il
torto,
perché se fossero in grado di farlo
non sarebbero deboli. Ma
c’è
anche chi, un po’ più colto,
e politicizzato, sostiene
che
non è un caso che Marchesa
sia convinta che
l’ebreo-tedesco
con la barba voleva fare camminare il mondo
sulla testa, quando
sosteneva
che ognuno dovrebbe dare secondo le proprie capacità
e avere secondo le
proprie esigenze.
E quello, persuaso ancora
che il pubblico è
privato,
come ha appreso quando aveva venti anni
e faceva il sessantotto,
non
ha pudore a sostenere
che le esigenze di
Marchesa sono
inversamente proporzionali
alle sue capacità,
non
foss’altro per essere in linea con lo spirito dell’epoca
che dopo essersi
incarnato di
volta in volta in Alessandro, Cesare e Napoleone
ha scelto ai nostri tempi
d’assumere
il volto gli occhi e i capelli
del presidente che
sorride-sorride
sempre,
del quale Marchesa quando
può
e come può e sa non perde occasione
di ricordare a chi
incontra che
anche lui ex umili potens
è la prova che il
potere
corrode solo chi non ce l’ha.
Marchesa
è
amica di Fortunata,
ed è amica di Mondialcasa,
ed è amica della
Signora,
ma alle cene non le invita tutte.
Non invita Fortunata, che
dinanzi
a un piatto di brodo parla alla nove di sera
il fiorentino e dieci
minuti
dopo quella dei negri di Genet.
Non invita Mondialcasa,
perché
non sa scegliere il colore dei collants,
che le dame del tempo
andato
e di quello presente amano brown fumée
e le cameriere e
Mondialcasa
preferiscono gialli.
Così che non le
resta
che la Signora, e un’amica della Signora,
che fu di casa un tempo a
Casalpurga
e fu ed è ancora
esperta dei vizi umani e
del
valore, per parlare di amanti,
e del presente, e del
passato,
perché nel futuro, come insegna il poeta,
è d’uopo non
credere.
Ma com’è triste la
vita
quando un marito è così mediocre
da bloccarti il conto in
banca
per impedirti di andartene!
Come è triste
sentire
che rien va plus dopo che hai compiuto da un pezzo cinquant’anni
e le hai perse tutte
proprio
tutte le scommesse della vita e non ti resta
che dirigere a Casalpurga
una
sola classe,
un solo docente, un solo
alunno.
E sì che ha
ragione Seneca
che è meglio un solo libro piuttosto che la serie infinita
di pagine con cui si
trastulla
chi bada alla quantità e non alla qualità.
Ma anche così, que
triste
sentire che ora in terra
d’abruzzo
ci sono ancora pastori
per i quali l’odore delle
capre
si mescola con quello del mare
e dei pascoli che, ancora
verdi,
stanno lì fermi a ricordarci
la lezione della natura,
che
non deficit in necessariis
e ama le nutrici che non
cambiano
ad ogni stagione le borse di fendi,
né sanno fare le
figurare
ma hanno latte e seni opulenti
per chi ha ancora voglia
di succhiare,
e di toccare.
13.
Padre Vertov
Padre Vertov è
laureato
in fisica, ma ha insegnato per trent’anni latino e greco
senza mai capire che
egerat è
più che perfetto indicativo di ago agis
e non il congiuntivo
presente
di egero, egeris.
Ha cercato anche di fare
la concorrenza
a Ghezzi e a Wenders,
convinto com’è che
la
macchina da presa possa funzionare
da metafora non
c’è male
dell’occhio di dio e dei suoi profeti
e che Serafino Gubbio con
i suoi
diari sia una sorta di Bartleby dell’immagine,
a cui Debord avrebbe
potuto pure
rendere omaggio,
prima di farla finita con
quel
film dal finale scontato
che è la vita.
Padre Vertov è
un ottimista.
E ama socializzare, ama stringere tra le sue mani
la mano di chi incontra e
mano
nella mano condurlo a visitare i saloni
dove specchi e ceramiche
ricordano
che nel settecento non c’era solo voltaire
a chiedersi di dio e dei
suoi
profeti. Ama convincere chi gli è vicino
che lui, padre Vertov,
non si
dimentica dei compleanni e degli onomastici
degli amici, non
dimentica che
a Natale e a Pasqua è necessario fare presente
a chi lui ama quanto li
ama.
Non per altro, sul computer,
un foglio di Excel ogni
giorno
gli impedisce di dimenticare che bene, sì,
oggi è il 3
novembre e
la Signora compie sessant’anni
e domani suo marito
dovrà
fargli
un elettroencefalogramma
che
lo rassereni
e lo rassicuri che ha
ancora
sessant’anni da vivere.
Padre Vertov non ama
chi si sottrae
alla sue cure, o perché è privo di affinità
elettive,
o perché convinto
che
l’amicizia richiede una parità cui poco s’addice
l’umile accondiscendenza
che
lui esige da chi si lascia proteggere chi lui protegge.
E giudica un tipo
pericoloso
quello che trascura di testimoniargli ogni giorno
che la libertà del
sentire
e del pensare sono gli strumenti
attraverso cui il diavolo
ci
rende superbi e poco mansueti.
Lo addita discretamente
come
cattivo maestro, uno che plaude al vizio e la virtù deride,
un don Giovanni dello
spirito
e delle sottane, che si diverte come Socrate a corrompere
i giovani e come Rasputin
a sedurre
zarine.
Tanto, è sicuro
che ci
sarà sempre una Mondialcasa di turno che darà voce a
ciò
che lui pensa
e andrà a dire in
giro
che quel tipo è davvero pericoloso, perché vuole
convincere
chi ha solo sedici anni
che il
re è nudo e nuda è la sua corte.
Padre Vertov ritiene
che il tatto
sia dei sensi quello che meno ci rassicura
sulla stabilità
del mondo
e che è compito morale di chi è avanti negli anni
e da tempo è
immune dalle
lusinghe del copulare, convincere i giovani ad astenersi
dall’esercitare il
diritto a
fare uso della mano e della pelle per non essere vittime
di quei deprecabili
squilibri
attraverso cui la specie si riproduce,
fregandosene di santi di
impotenti
e di guardoni, che qualcuno chiama peccati.
E padre Vertov è
ossessionato
dal peccato. Come Mondialcasa, e Marchesa,
e Airobica. Lo vedono
dappertutto:
lo vedono nelle gonne
nelle calze
nelle borse che nascondono
profilattici e
anticoncezionali,
negli ospedali negli ospizi nei rifugi di montagna
negli chalet in riva al
mare
sulle seggiovie sulle ovovie sugli aeroplani sui deltaplani
tra i banchi nei bagni in
cucina
e in salotto
come se il Maligno non
avesse
ben altro da fare se non assumere
i giorni pari le
sembianze di
un fallo inturgidito,
quelli dispari di una
vagina
che pulsa,
e il dì festivo
trastullarsi
a devastare i sogni
di chi ritiene che il
tatto sia
dei sensi quello che meno ci rassicura
sulla stabilità
del mondo.
E lui che ha insegnato
per trent'anni
latino e greco non si capisce bene
che cosa abbia mai detto
ai giovani
dei nostri tempi
di quella gente del tempo
andato
che era convinta che far bene l'amore
fa bene non solo
all'amore, ma
anche all'intelligenza
e ai villi intestinali.
Padre Vertov non
dovrebbe temere
la morte, ma la teme.
Sicuramente non ha letto
né
il Bartoli, né il Segneri, ma, visto il suo statuto sociale
certificato dalla Curia,
se non
da dio, dovrebbe in ogni caso essere sicuro
che il giorno della
nascita lo
attende, quando tornerà il bambino che non è mai stato
e potrà chiamare
papà
e mamma sicuro che quelli verranno e non lo lasceranno solo
come hanno fatto per i
primi
ottantanni della sua vita.
Padre Vertov teme la
morte, perchè
non è poi così sicuro che dopo
ci sarà qualcosa o
qualcuno
a risarcirlo di non aver mai avuto
ciò che non ha mai
avuto.
Del resto ogni giorno ha la sua pena,
come è sancito
nelle sacre
scritture e nei films che nei cineforum
confermano che la vita
è
amara e che hanno sempre tutti una fine
perché tutto prima
o poi
finisce, anche il dolore e l’amarezza
d’aver capito che la vita
è
solo un film.
Padre Vertov è
laureato
in fisica, ma non ha mai capito perché la terra
oscilli sul proprio asse
e non
su quello di dio: Ha insegnato per trent'anni latino e greco
ma non ha mai capito cosa
voglia
dire orazio quando invita leuconoe ad assaggiare la vita
come si assaggia il vino.
Si
è limitato a proiettare per vecchie signore, che potevano fare a
meno
di lavorare per passare i
pomeriggi
a vedere films, pellicole in cui a 25 fotogrammi al secondo
il diavolo si divertiva a
fare
il verso a dio e ai suoi profeti.
E
ora che è
vecchio, ora
che il dì futuro è più noioso e tetro
del dì presente
segnato
sul foglio di Excel che gli ricorda che sta per compiere gli anni,
a padre Vertov non resta
che
chiamare dopo cena al telefono la Signora
e assicurarsi che domani
suo
marito venga a fargli l’elettroencefalogramma
che gli dia la certezza
che ha
ancora sessant’anni da vivere.
14.
La Signora e i suoi amici
La Signora di tutti
parla male,
ma di tutti è amica. La discrezione
le si addice così
naturalmente
che non ha bisogno di tecniche particolari
né di aver letto
Guicciardini
per sapere che, da sempre, l’onore e l’amicizia
sono le sole cose che nel
mare
della vita possono garantirti
che se c’è
burrasca c’è
sempre qualcuno ad aiutarti
e se c’è sereno
puoi dimostrare
agli altri come sono inutili.
La Signora sostiene
che Mondialcasa
è ignorante come la sua verdummara
e per chi sa quali motivi
a Casalpurga
non si può fare a meno di lei. Insinua
che a furia di lustrar
mobili,
pavimenti e scarpe qualche merito
se l’è pure
guadagnato.
Insinua anche che uno zio arciprete non fa mai male,
e non fa male avere la
solidarietà
di un marito che non ti disturba più
e si limita a dormire
senza mai
allungare una mano e nulla avere più a pretendere.
Ma la Signora queste cose
a Mondialcasa
non le dice. Non le dice che è lei
ad aver coniato per la
figlia
e il compagno di sonno i nomi di Mortimer e Mortisia,
ben sapendo che nomen est
omen.
Anzi, qualche volta ci passa anche l’estate insieme,
condivide con lei
l’indolenza
delle notti di agosto quando la luna diventa rossa
ed evoca umori che
sarebbe meglio
non evocasse, le racconta
che un giorno il Poeta le
ha
chiesto a che punto fosse la notte
ma che lei ha ignorato la
domanda,
invitandolo a non turbare né l’universo
né il pudore di
chi altrimenti
non saprebbe cosa farsene del suo pudore.
La
Signora ritiene che
Matrioska
dovrebbe studiare un po’ l’ astronomia,
visto che Gaudì
è
un po’ complicato, e che l’arte è lunga e la vita è breve.
Pensa che se ad Akakaii
Akakievic
capitasse di ascoltare la Cavalcata delle Valchirie
mentre scopa, andrebbe in
tilt,
hoc est avrebbe l’eiaculatio precox. E’ convinta
che El Topo sarebbe una
moglie
deliziosa e obbediente, e Ninetto uno di quegli amanti
che ti fanno apprezzare
la monotonia
di un marito. Sa, per averlo colto in flagrante
e con i peli del petto
bene in
mostra in un corridoio, che Buzzanca non disdegna
le bionde anche se
attempate
e con le rughe su cui non è stato applicato ancora il botulino.
E’ a conoscenza anche che
a Berruti
quando mette le mani in culo alle tredicenni
vengono le polluzioni
diurne.
Ritiene che Lucien de Rubempré sia tutto sommato
un bravo ragazzo che ha
avuto
solo la sfortuna di trovare una moglie
che lo comanda a
bacchetta.
Teme che Egidio non abbia
mai
scopato Gertrude ma si sia limitato a toccarla
solo in quelle parti che
è
bello tacere e che lei questo non glielo ha mai perdonato,
anche se poi a dio ha
chiesto
perdono dei suoi peccati, specie di quelli per cui avrebbe voluto
essere perdonata, se
Egidio non
fosse stato così prudente.
Tante cose sa la Signora
che
nessuno sa, e tutti le sono amici e parlano bene di lei
e dicono tutti che a
Casalpurga
se lei non ci fosse qualcuno dovrebbe pur inventarla,
e tutti ricordano il buon
tempo
andato, quando ancora giovane e snella
per i giorni della festa
ella
s’ornava e a tutti andava ripetendo
che la vita è
bella e
lo sarebbe ancora di più se non ci fosse sempre qualcuno
a ricordare urbi et orbi
che
a parlare male di tutti e di tutti essere amici
son bravi anche il
diavolo, padre
Vertov e tutti quelli
di cui la Signora parla
male,
ma è sempre amica.
15.
La scuola cresce
La scuola cresce.
Proprio come
te. Così recita
lo slogan che vuole
convincerci
che c’è qualcuno ancora
che non solo si preoccupa
del
permanere della specie sul pianeta,
ma anche della
qualità
spirituale di mammiferi che furono
un tempo scimmie, o orsi,
a seconda
delle teorie.
Chi l’ha scritto ignora
la differenza
che c’è tra crescita e sviluppo
e che anche i dinosauri
ingrandirono
a dismisura il loro corpo,
e rimpicciolirono, per la
legge
di compensazione, il cervello.
La scuola cresce. Proprio
come
te. E ti viene il dubbio
che non hai capito nulla
di quello
che accade nel mondo,
anche se l’hai letto in
tutti
i libri che poco è cambiato
da quando Ettore alle
porte Scee
salutò Andromaca
per andare a morire. Ti
viene
il dubbio
che l’occhio del collega
che
ti guarda e che ti sembra
privo di tono e di bon
ton
nasconda un’intelligenza
che tu non sei in grado
di cogliere:
perché credi
ancora nelle ideologie,
che non
sono più di moda,
credi che c’è
ancora qualcosa
da fare in questa piccola cosa
che è la vita, e
che non
è detto che la stupidità
debba essere sempre
l’unica gioia
di cui siamo capaci.
Ma poi guardi l’occhio
privo
di tono e di bon ton del collega,
che ricorda nei muscoli
facciali
e nello sguardo
la serietà
compunta e
sagrestile di Himmler
e capisci, d’un tratto,
quasi
fosse una crociana intuizione
che può fare a
meno della
sua realizzazione pratica,
che chi ha scritto quello
slogan
ha lo stesso occhio
di Akakij Akakievic che
un giorno
fu scimmia, o orso,
a seconda delle teorie,
ma ora
usa la calcolatrice
per stabilire che
l’intelligenza
del diciottenne che ha davanti
è pari a cinque e
sette
periodico.
16.
El Topo sbarca in Sicilia
El
Topo è
innamorato della terra, in cui Empedocle intuì
che dei quattro elementi
il fuoco
è quello che più si addice
a chi voglia purificarsi
dell’empietà
della vita e Archimede
diede prova che non
sempre la
scienza ne migliora la qualità..
Ne è innamorato al
punto
che anche quest’anno vi ha fatto ritorno.
Per inebriarsi del
profumo dei
limoni. Per assaporare
l’indolenza dei lunghi
pomeriggi
quando il vento del sud
rende flaccidi, come
voleva Paracelso,
e più sensibili
a sentire che il confine
tra
la vita e la morte
è così
incerto
che ti viene voglia di strappare
all’esistenza l’estremo
guizzo
e darti al piacere blasfemo
dei sensi che poco si
curano
di quanti esigono da te gusti sessuali
conformi agli attributi
anatomici
che la natura ti diede in sorte.
In
questa terra
qualcuno scrisse di sirene
che anche senza il canto
sanno
strapparci di notte a quel sonno
che è spesso la
ragione,
e affermò che la gente che qui ha la culla
e poi la tomba è
tutto
ciò che rimane degli dei che un giorno
si illusero che anche gli
uomini
potessero diventare dei.
Perciò El Topo vi
fa ritorno:
per ritrovare nelle pietre dei templi
e nel sorriso di Rock
Hudson
l’innocenza del tempo
in cui non c’era la
bacchetta
di suor Concetta
a impedirgli di giocare
con le
bambole e con la sua felicità.
El
Topo ha deciso.
Oggi darà a tout le mond la prova
che non è vero
ciò
che di lui si dice e, se gli va bene, anche Rock Hudson
che è così
avaro
nei suoi sentimenti, ne sarà geloso.
Del resto, ma che vuole
quella
hostess lì che li accompagna in giro
se non trovare nel primo
che
capita l’ebrezza di cinque minuti
in cui non è
tenuta a
spiegare a nessuno che Teocrito e Virgilio
non avevano mai subito la
puntura
di un’ape iblea?
Che vuole con i suoi
ammicamenti,
col seno che fuoriesce dalla blusa,
con la gonna che
s’accorcia sulle
gambe, se non di essere innocente
come non lo è mai
stata?
E allora perché non assecondarla,
recitare a soggetto, come
s’usa
da queste parti, fare come in quella canzone
in cui lui invita lei a
togliersi
uno dopo l’altro gli indumenti
con cui cerchiamo di
dimenticare
che tutti davanti alla vita, e alla morte,
siamo nudi come quando
fummo
gettati fuori
dall’utero benedetto
della madre?
El
Topo ora
è quasi nudo, e anche l’hostess, E gli alunni ridono,
e applaudono. E Rock
Hudson non
è più così compunto,
come deve esserlo un
filosofo
che è convinto che filosofia non serve a nulla.
E tutti lì a
dirsi: ma
che simpatico El Topo, è uno che sa stare agli scherzi,
uno che può
parlarti di
Erodoto ma sa anche sostenere l’insostenibile leggerezza
dell’essere e, al momento
opportuno,
dimenticare che tutto ciò
non sarebbe certamente
gradito
all’uomo del nord,
che è convinto che
la
vita è bella solo quando soffriamo.
Ma
El Topo tutto
questo lo sa. Sa bene che l’uomo del nord,
se venisse a saperlo,
dimenticherebbe
la regola antica che ai servi
è d’obbligo
perdonare.
Si consulterebbe con Mondialcasa, e con Marchesa,
che El Topo conosce
troppo per
ignorare che amano fare come i cani
che di solito mordono chi
ha
già le vesti stracciate.
E se necessario
chiederebbe il
parere anche di Padre Corvino, e padre Malatesta
e padre Vertov. Per poi
prendere
le decisioni che aveva già prese
prima di consultare tutti
quelli,
di cui deve fingere
di tener conto solo per
mondana
prudenza e aristocratica alterità.
E mentre gli alunni
ridono, e
l’hostess ricompone nella decenza
dell’abbigliamento il
corpo che
per un istante fu tutto il suo regno,
a El Topo non resta altro
che
invitare tutti,
alunni, hostess, Rock
Hudson
che non ha detto una sillaba,
a raccogliersi in
preghiera,
e a concentrarsi,
con intensità e
serietà,
su parole, che come da uno getsemani
in cui confessare tutto
il proprio
smarrimento, possano,
attraverso lo spazio e il
tempo,
far giungere al cuore dell’uomo del nord
la prova che chi vive a
Casalpurga
non può fare a meno
di credere nello spirito,
che
perviene alla sua apoteosi
solo attraverso il
pentimento.
El
Topo prega.
In silenzio. E tutti pregano. In silenzio. E c’è un grande
silenzio
tutto intorno, tra gli
alberi
di limoni e le pendici del monte in cui Empedocle intuì
che dei quattro elementi
il fuoco
è quello che più si addice a chi voglia purificarsi
dell’empietà della
vita.
Un silenzio molto simile a quello che un istante prima del bing bang
dovette vivere dio quando
decise
che la terra avrebbe continuato ad oscillare
sul proprio asse, anche
quando
sarebbe stata priva di parassiti, e di saprofiti.
17.
L'uomo del nord scopre la luna
L’uomo venuto dal Nord
ha vissuto
più di quanto è consentito
mediamente a chi dovendo
fare
i conti con il decadere degli atomi
e dell’intelligenza non
ha il
distacco necessario per intuire
che la storia è
solo una
variazione impercettibile del tempo
e non è né
una
ruspa né il trampolino per il Giudizio Universale.
Ha letto l’Ecclesiaste e
sa bene
che se hai guardato in faccia
ad un uomo l’unica cosa
è
non fare, perché non c’è nulla da fare,
se non quel poco di
dolore che
tocca a tutti di fare.
Ha letto Dostojevsky ed
è
convinto che il Grande Inquisitore
non è che poi
avesse tutti
i torti. Ha letto Paolo Sarpi
e ne ha tratto la
persuasione
che dopo Trento solo l’errore,
e il Maligno, hanno
potuto spingere
chi ha il compito
di illuminare lo spirito
della
specie a credere
negli anni sessanta di
potere
restituire all’uomo
la libertà di cui
quello
non sa cosa farsene.
Così che anche le Osservazioni
sulla Morale Cattolica
gli appaiono
l’espressione di
un animo che, se avesse potuto
ai suoi tempi fare un po’
di
terapia o un esercizio spirituale
si sarebbe liberato a
tempo non
solo della madre fedifraga,
ma anche dell’amante
della madre
che peut etre era suo padre,
e del nonno blasfemo ma
famoso.
L’uomo venuto dal Nord
ha scoperto
da poco
che Eliot si è
occupato
di Dante e che Benigni è delizioso quando ci fa capire
che il paradiso è
alla
nostra portata. E da poco ha scoperto con Friedrich
che esiste la lirica
moderna
e che è bello in tempi in cui la poesia è bistrattata
ascoltare le voci del
passato,
che ci ricordano come un giorno c’era l’alloro
a incoronare cesare e
poeti.
Tuttavia non si indigna più di tanto
se oggi c’è chi
preferisce
la bandana. Non si indigna nemmeno
se padre Corvino reclama
ad alta
voce il diritto di cambiare
il condizionatore
portatile con
uno fisso a parete.
Chi ha vissuto più
di
quanto è consentito sa bene
che mondo era, mondo
è
e mondo sarà,
e che se non fosse
così
chi avrebbe potuto
non ce ne avrebbe fornito
un
altro in cui andare a raccontare
come siamo stati buoni,
non ostante
gli altri fossero cattivi.
L’uomo venuto dal Nord
si commuove
quando parla
dei giovani che non
sapendo cosa
farsene dell’aria e dell’acqua
preferiscono lasciarle
agli altri
da respirare e da bere,
e per sé scelgono
la celeste
corrispondenza d’amorosi sensi,
che possa ricordarli a
chi in
ogni caso li dimenticherà.
Si commuove, e non mente.
La
voce gli trema, gli occhi
si velano di pianto,
l’omelia
si fa incerta e poco convincente.
Cerca lo sguardo di Padre
Corvino,
per un aiuto, una parola
che possa scaldare il
cuore di
chi è convinto
che chi crede all’anima
ce l’abbia
davvero.
E quando i giovani
sciamano,
cercando la piazza
e l’ammiccare reciproco
degli
sguardi, egli se ne va:
con lo stesso passo con
cui era
venuto, deciso e cadenzato
come deve esserlo il
passo di
un soldato persuaso
che si vis pacem
perfice bellum.
18.
Ficusecca
Ficusecca non ha molte
occasioni
per rendersi visibile. Dietro una scrivania,
per tutto il giorno le
tocca
lavorar d’uncino, quasi fosse una penelope
o una silvia che tesse
con mano
leggera la tela con cui adescare
il procio o il poeta di
turno.
Solo che lei tesse per colleghe
che fanno a gara ad avere
il
maglione l’una identico all’altra.
E se quella l’ha voluto
celestino
e con il dovuto rilievo al dorso
che s’incurva là
dove
il fondo schiena lascia intuire
che la verità ama
nascondersi,
l’altra, per distinguersi,
le chiede di adoprar filo
ciclamino
di scozia,
che renda onore a lombi
opimi
in grado di ricordare
a chi le contempli che la
bellezza
è coincidenza
di forma e
contenuto.
Non per altro
Mondialcasa, e
Matrioska, e Fortunata, fanno a gara
perché Ficusecca
sia solerte
e fornisca l’opra anzi il chiarir del giorno
in cui esse s’attendono
che Big
Jim sciolga i suoi dubbi
e decida chi di loro
è
la più bella.
Altri compiti ancora
ha Ficusecca.
Di certificare che a Casalpurga
tutti rispettano l’orario
di
entrata e di uscita, e di segnare nel libro della memoria
chi fu assente quando
tirava
la tramontana e chi non fu presente
quando lo scirocco rende
incapaci
di agire. Di educare
attraverso i debiti
esercizi
i corpi ad essere sani anche quando la mente non lo è
o, più
verosimilmente,
non c’è. E Ficusecca ne va fiera, è fiera
d’esser polifunzionale e
di dimostrare
che ha ragione chi ai nostri tempi
sostiene che occorre
essere elastici
nel mondo del lavoro
ed in grado di fare il re
anche
se si è da sermone
e di fare sermoni anche
se nelle
vene scorre sangue reale,
di saper servire con la
stessa
disinvoltura e competenza dio e mammona
e, se occorre, di saper
sorridere
quando si ha voglia di piangere
e di piangere, se bisogna
convincere
chi sta davanti
che è il momento
del lutto
e del dolore.
Del resto, non a caso
Ficusecca
è come un sicomoro rattrappito
sul ramo dell’albero e se
la
guardi bene negli occhi triste,
come la goccia d’acqua di
Chopin.
Le tocca lavorar d’uncino,
e certificare che tutti a
Casalpurga
rispettano l’orario di entrata e di uscita
e convincere tutti che
mens sana
in corpore sano, quando poi se la guardi bene
ti viene da pensare che a
Casalpurga
ne sanno una in più del diavolo.
Così che non le
rimane
d’essere ubbidiente, e ligia ad eseguire ciò
che Mondialcasa esige da
lei,
quando evita di compromettersi
con chi dovrebbe, senza
discutere,
eseguire le sue disposizioni
ma potrebbe sempre prima
o poi
esercitare la divina virtù dell’impazienza.
E
così
Ficusecca quasi
fosse iris che porta i messaggi della dea
va dalla collega che
tutti pensano
non abbia la testa a posto
e le dice: devi guidare
gli alunni
in attività extrascolastiche
E l’altra dice. Ma dove
devo
portarli.
E lei dice: a visitar
castelli.
E l’altra dice: in aria?
E lei dice: anche a
visitar musei,
uno qualunque.
E l’altra dice, e lei
dice e
l’altra dice e lei dice finché Ficusecca non è costretta
a tornare
da Mondialcasa e a dirle
che
non tutti sono disposti a fare ciò che lei vuole che si faccia
perché fare tanto
per
fare lo può fare solo chi nulla sa fare
e Mondialcasa inarca le
narici
e si lascia sfuggire che la collega
dice così
perché
non ha uno che se la fa ogni sera
e Ficusecca pensa ma non
lo dice
che Mondialcasa ce l’ha uno che se la potrebbe fare ogni sera
ma non se la fa e
Mondialcasa
aggiunge che la collega si merita la vita che ha avuto
e Ficusecca pensa che
anche Mondialcasa
si merita uno che se la potrebbe fare ogni sera
ma non se la fa e
Mondialcasa
ripete ora è chiaro perché la collega
non ha mai trovato un
compagno
con cui dormire
e Ficusecca annuisce e
mangia
patatine e lascia che Mondialcasa continui a ripetere
che se non ci fosse lei
Casalpurga
dovrebbe chiudere
e che di questi
sessantottini
è stanca e bla, bla, bla
e Ficusecca lemme lemme
se ne
torna dietro la scrivania
dove le tocca lavorar
d’uncino
a confezionare il maglione che Mondialcasa
le ha ordinato proprio
ieri quando
le ha chiesto di andare dalla collega
che non ne vuole sapere
di castelli
in aria e in terra
e di fare finta che a
Casalpurga
si progetta
in nome di cristo di
berlusca
e del demonio
il futuro della specie e
anche
di dio.
19.
Mission
Sua Eminenza ama la
vita, e si
vede.
Ha lo sguardo vivo di chi
contempla
il mondo senza essere schiavo
della sedia su cui
è seduto,
ma sa che le prospettive sono infinite
quante gli sgabelli su
cui poggiamo
i piedi.
Non è più
giovane,
ma nemmeno vecchio abbastanza per non credere più
all'eternità.
Così,
è sempre pronto a mostrarsi al passo con i tempi
che esigono da quanti
credono
nello spirito di essere sempre pronti
a mostrare, e dimostrare,
urbi
et orbi, che il tempo è una deformazione
della materia, che ama i
buchi
neri e non ha rispetto
per i semplici di cuore,
e di
cervello.
Sua Eminenza è
un uomo
di mondo, e si vede.
E' sempre dove è
necessario
che sia presente chi ha a cuore
il futuro della specie e
della
rigorosa distinzione dei sessi
che sola può
garantirle
la sopravvivenza su un pianeta
che cambia troppo spesso
clima,
inclinazione e composizione chimica
dell'atmosfera. Ha letto
Boccaccio,
ma fa finta di non averlo letto.
Ha letto Machiavelli, ma
si guarda
bene dalll'andarlo a dire in giro.
Sa anche che al ghibellin
fuggiasco
il rispetto non impedì di condannare
col suo maestro
ciò che
dei chierici è compagno,
e per i laici è un
vizietto.
Così, non gli resta che andare qua è là
da un'emittente all'altra
a coltivare
il sospetto che la collera sublime e terribile
di dio è pronta ad
entrare
nella storia, per ricordarci
che siamo come le foglie
che
prima o poi vengono giù.
Sua Eminenza è
esperto
di tutto quanto ha da esserlo
chi si piglia cura dei
renzi
di questo mondo, che non sanno
cosa sia una cellula
staminale
e ignorano che perfido è il demonio,
quando vuole farci
credere che
se cristo fu povero
debbano necessariamente
esserlo
tutti quelli
che si preoccupano di
creare
intorno a una croce
un'audience che faccia
più
mercato di allah, budda
e di quel giove che ormai
nessuno
più ricorda.
Sua Eminenza è
un fans
di John Wayne. Li ha visti tutti i suoi films,
dove quello cavalca col
volto
spavaldo di chi ha capito senza mai
aver letto William che la
vita
è l'incubo di un idiota e sa
che il mondo vuole essere
gabbato,
e gabbato sia.
Ma ha letto anche
Wittgenstein,
che pensava che ciò di cui non si può parlare
si deve tacere. E
l'Accetto.
E McLuhan. E Baudrillard. E il corpus intero
di Ermete Trismegisto. Ha
letto
anche Beccaria: col sorriso indulgente
di chi perdona al nonno
solo
perché il nipote lo ha tradito.
E quando nella
Papanìa
qualcuno pensò che fosse lui,
sì, proprio lui
l’uomo
della provvidenza che avrebbe potuto restituire
a Casalpurga l’antico
splendore,
pur sapendo come lo sapeva Metternich,
che un edificio corroso
dai vermi
prima o poi viene giù,
non esitò a
pensare: io
mi sobbarco, perché prima o poi
qualcuno avrebbe pure
dovuto
provvedere a rimettere
su la barca anche se non
si sa
se è di pietro, di paolo o di ernesto
e drizzarla al porto
sicuro e
glorioso dove s’adunano
tutti quelli cui non
resta che
credere a dio,
visto che gli uomini che
attraversano
il tempo e non ci sono più
possono essere solo servi
delle
proprie passioni
e del ritmo della
materia, che
è stupida
e non sa cosa farsene
delle parole,
e dello spirito
che le pronuncia.
Sua Eminenza ora se ne
va per
Casalpurga con lo sguardo
di chi è convinto
che
se salvi una farfalla è come se avessi salvato
l’universo intero. Parla
con
tutti, e tutti ascolta. Li convince che è dalla loro parte.
Tace, e non risponde.
Dice solo
che se è lì non è per liquidare la storia
che a Casalpurga ha
scritto pagine
gloriose.
Mondialcasa annuisce. E
annuiscono
anche la Signora, e Lucien de Rubempré
E Gertrude e Richelieu
che Sua
Eminenza ha scelto, in segreto,
perché, in
segreto, progettino
per Casalpurga un futuro
che non tradisca il
passato e
smentisca il presente.
Annuiscono, perché
non
hanno altro da fare se non convincersi
per una o due settimane
che l’isola
che non c’è esiste davvero
e di essere, almeno una
volta,
protagonisti almeno della propria vita.
Mondialcasa li guarda,
mentre
annuisce. Si vede che è arrabbiata,
e molto. Specie con la
Signora,
con cui sa bene ha poco da spartire
in intelligenza, cultura
e savoir
faire. Si chiede perché Sua Eminenza
non abbia per lei parole
di coinvolgimento,
per lei che pure fu scelta
perché a
Casalpurga facesse
come il timoniere nella nave,
anche se tutto ignora dei
venti
e delle bizze del mare.
Ma poi tace. Guarda la
Signora,
e Lucien de Rubempré
e Gertrude e Richelieu.
Guarda
Sua Eminenza che sorride sornione
e invoca sui presenti la
benedizione
dei celesti
e del bambin gesù.
Guarda
l’uomo che è venuto dal nord
e al nord ora torna,
senza mai
avere capito il sud. Guarda Marchesa
che cerca non si sa cosa
nella
borsa di Fendi poggiata sulle gambe stecchite.
Guarda El Topo che siede
con
la rigidità di chi si vergogna del proprio corpo.
Guarda padre Vertov che
muove
senza parlare le labbra
per ricordare almeno a se
stesso
che la vita è amara, è amara, è amara.
E per un istante sente
che c’è
nei suoi occhi un pianto
cui non può
cedere, come
non cedette quel giorno
al marito che voleva fare
l’amore
con lei in un treno vero,
e non in quei trenini in
miniatura
con cui a sera
si sforza di dimenticare
che
si vive una sola volta,
e dopo non ci attende
quell’eternità
cui solo Sua Eminenza
sembra
credere,
non foss’altro
perché
ognuno recita come sa
e in nessun luogo come a
Casalpurga
il diavolo che ama il
teatro,
e l’arte,
nulla ebbe a invidiare a
quel
dio
che ci volle impasto di
sogni
e di menzogne.
Kimbo
è davvero una persona squisita
un
gentiluomo di altri tempi che non si fa pregare due volte a offrire
il caffè
a chi
gli sta vicino specie se ha la gonna e gli fa sentire
che le
donne hanno un profumo di
cui si può godere
anche
quando il tatto ha smesso da tempo di turbare
le ore
dedicate al sonno al sogno e ai progetti
per il
futuro
20. Kimbo
Kimbo
è davvero una persona squisita
un
gentiluomo di altri tempi che non si fa pregare due volte a offrire
il caffè
a chi
gli sta vicino specie se ha la gonna e gli fa sentire
che le
donne hanno un profumo di
cui si può godere
anche
quando il tatto ha smesso da tempo di turbare
le ore
dedicate al sonno al sogno e ai progetti
per il
futuro
Kimbo
è anche uomo devoto
si
commuove se da qualche parte del pianeta una statua che piange
sui
peccati degli uomini e sulle donne che li inducono in errore
ci
ammonisce che è giunto l’ora di ravvedersi prima
che una selva oscura
ci
inghiotta senza che nessun virgilio ci venga incontra
e non a
caso annualmente compie il suo pellegrinaggio
nei
luoghi che ci ricordano come non sia vero
che il
lavoro rende liberi
pratica
la pietà e la mansuetudine che può avere solo chi
dopo
aver attraversato la storia ha appreso
che la
storia non serve nulla
e lo
sanno bene i giovani che lo ascoltano e non sanno
di cosa
lui parli e ne parla perché parlando si porta a casa
di chi
vivere e può sottrarre al giorno la noia
che
s’annida nei lunghi pomeriggi dove solo un bigliardo
gli
può far dimenticare che a notte
non
avrà nulla da sognare o da toccare
Kimbo
parla di filosofi ma non ha mai letto Epicuro
discute
di dialettica ma ignora che i greci
davano
alle parole un peso simile alle cose
che ci
cadono sulla testa durante un temporale
così
si limita a scaricare da internet i testi da proporre
a chi a
sedici anni non ha ancora capito che si diventa adulti
solo
quando hai capito che il mondo vuole essere gabbato e gabbato sia
ma che
prima o poi intuirà che la storia e la filosofia non servono a
nulla
visto
che nulla ne sai né più avrai il tempo per trovare
chi te
le racconti
Kimbo
è così
si tinge
i capelli sfoggia cravatte con disegni da decifrare
su
Facebook intrattiene le nuove generazione alle 5 del mattino
sui
ritmi di Trenet e di Brel fa il comunista e poi il socialista
e il
sindacalista e il cattolico e l’islamico e offre caffè
offre
tutto ciò che ha da offrire
offre
anche la sua anima a chi è disposto ad ascoltarlo
ma a
notte quando nulla ha da sognare e da toccare
non gli
resta che attendere il giorno quando di nuovo potrà offrire
caffè
parlare
di Lourdes e di Auschwitz
trovare
prima o poi uno che a sedici anni sta lì ad ascoltarlo
solo perché ha già
imparato che
il mondo vuole essere gabbato e gabbato sia
21. Bephi
I
Bephi
è una donna che ha stile. Ama il vintage, i funghi delle
dolomiti
e le lunghe sciarpe
che le
nascondono il collo da Madonna del Parmigianino. D’estate,
frequenta i concerti
che di
notte, vicino al mare, le fanno vibrare l’animo di nostalgia.
D’inverno,
predilige
le trapunte, sotto cui simulare d’essere un feto che non ha
voglia
di
conoscere il mondo che non vuole conoscerlo.
Bephi ha
a disdegno chiunque sia dotato di un pene. E non perché
non ne
apprezzi il moto. Anzi, quando le capita, è in grado di gustare
l’andare avanti e indietro
che fa
di quello un’occasione per la specie, e per una femmina. Ma poi
pensa
che
è faticoso assecondarne il gusto, e pagare il prezzo che si deve
perché
quello con continuità ed efficienza ti fornisca di ciò di
cui
crea in te il bisogno,
e
accettare che diventi signore della tua vita dopo che lo è
divenuto
della
tua vagina.
Bephi
ritiene che non ne valga la pena. I calzini di un maschio non
hanno certo
un
bell’odore, né lo hanno le sue mutande, né sono da
giustificare le
sue pretese
che due
volte al giorno sul tavolo ci siano piatti in grado di
soddisfare la sua bocca
e una
volta almeno la settimana i suoi genitali. Bephi non sopporta
che un
maschio possa condizionare la sua vita al punto di impedirle
da
andare a dormire alle otto di sera o di pretendere che un sabato
sera, all’improvviso,
non le
consenta di ascoltare l’idillio di Sigfrido perché i condotti
seminali sono intasati.
Bephi
è una donna di cultura. Ha letto la Yourcenaur, Etti Hillesum e
Simone de Beauvoir.
E ogni
volta si identica in qualcuno di quelli di cui legge. Ora, per
esempio, è convinta
che J.
P. Sartre non avrebbe potuto fare a meno di amarla. Ieri credeva
che la
piccola ebrea avesse con lei in comune il desiderio d’essere
posseduta
in tre
ore da due uomini diversi. Un mese fa immaginava che Marguerite
l’avrebbe
scelta come concubina del suo principe.
Ma Bephi
è una donna, e basta. Avesse un po’ più di umiltà,
chiederebbe
aiuto.
Una
manciata di orgoglio, non andrebbe in giro a lamentarsi. Un pizzico
di pietà
per se
stessa, la smetterebbe di amare il vintage, i funghi delle
dolomiti
e le
lunghe sciarpe che le nascondono il collo da Madonna del Parmigianino.
E non
frequenterebbe più i concerti che di notte vicino al mare le
fanno
vibrare
l’animo
di nostalgia. E la mattina, quando va a scuola e incrocia lo
sguardo
di
Mondialcasa che le fa sentire come a Casalpurga tutti farebbero a
meno di lei
e delle
sue sciarpe, avrebbe almeno il coraggio di dire a Mondialcasa:
“Non ho
un compagno di sonno, io, ma ho dormito
tutta la notte, stanotte”.
II
Bephi
insegna italiano, ma ignora perché Campana chiamò i suoi
canti
orfici,
anche se
poco hanno da spartire con i segreti dell’universo, che
impedisce
alle
pietre di muoversi e alle bestie di essere mansuete. Ignora anche
che la
Merini è una donna come ce ne sono tante, ma che ha preferito
la
follia della poesia a quella più discreta e quotidiana della
casalinga.
Eppure
lei finge di sapere apprezzare, quando occorre, chi ama la
bellezza
e con
parole, o colori, o suoni si ostina a farci credere che quella non
perisce,
come i
surgelati nel freezer o la frutta nella cesta dimenticata in
cucina.
Ama il
tango di Piazzolla, le armonie della notte e gli accordi
arabo-spagnoli di Turina.
Ama le
rose che non ha mai colto, loreto impagliato e le foto che le
ricordano
che
sì, anche lei è stata bambina, piena di dolori e offese.
Del
resto, chi vive da solo ha poche occasioni per sentirsi vivo.
Così,
va a raccontare in giro strane storie.
E dice
che a Casalpurga non è rimasto più nessuno a insegnare
a chi
è troppo giovane per essere disposto ad impararlo,
che la
poesia è un vizio assurdo che ti fa scendere nel gorgo muto
come chi
si è stancato di parlare, perché nessuno lo ascolta.
Dice
anche che nessuno dovrebbe dire male di Casalpurga,
non
foss’altro perché lì c’è ancora lei a testimoniare
che la
poesia è inutile, come un calzino bucato dall’unghia dell’alluce.
Lascia
anche sospettare che lei ha rifiutato di andare altrove,
quando
poi l’avrebbe pure potuto, perché solo a Casalpurga
chi
lavora è libero come l’ebreo che perdona
il boia
che lo tortura.
Ma
nessuno ha mai chiamato Bephi fuori da Casalpurga,
nè
le ha offerto occasioni per riscattarsi dal rendere ossequio
alla
Papanìa e ai suoi profeti.
E’
rimasta a Casalpurga perché altrove il mondo è ancora
più crudele
e ha
scarsa pietà di chi ama il vintage i funghi delle dolomiti e le
lunghe sciarpe
con cui
nascondere il collo da Madonna del Parmigianino.
E anche
questa estate, quando ancora una volta
sarà
difficile per chi è solo fingere di non esserlo, a Bephi non
resterà
per
dannunziana consolazione che pensare a Mondialcasa,
che,
stesa in un letto, senza ciabatte e mutande,
guarda
il compagno di sonno e conta
quanti
giorni ancora mancano perché Casalpurga riapra i battenti
e le sia
consentito, con il consenso dell’uomo del nord
e di
Marchesa, ricordare a Bephi e a tout le mond
che se
ciò cui rinunci in un istante non te lo restituisce
l’eternità
è
pur vero che dopo tutto e non ostante tutto
se la
vita è un piacere è solo perché
la
specie non ha trovato altre alternative
e
disporre dell’esistenza altrui è più eccitante che avere
nel letto
un
compagno che dorme, e non allunga la mano.
III
Bephi
dice di essere amica di Luther Blissett. Di ammirarne
l’intelligenza,
e la
sensibilità, lo spirito critico. Ma quando il gioco si fa duro
nulla la
distingue dall’amico Marco, che fra realpolitik
e
disordine dei sentimenti, sceglie per sè il nascondiglio
confortevole
della sua stanza, e di una coscienza che preferisce
al
coraggio il dolore della colpa, e alla coerenza l’hegeliana
inquietudine
di chi
non capisce di essere il simbolo del mondo, e del suo gioco.
Così,
ma senza vergogna, rende omaggio a Mondialcasa,
e
all’uomo venuto dal Nord, e a Marchesa, e a Felice Sciosciammocca
che
l’attendono, il primo settembre, perché di nuovo abbia inizio
la
recita che a Casalpurga vuole che chi non ha le palle
per fare
l’attore accondiscenda a spolverare le quinte e la pedana.
Ma Bephi
è una donna che ha stile. Ama il vintage, i funghi delle
dolomiti
e le
lunghe sciarpe che le nascondono il collo da Madonna del
Parmigianino.
E quando
la sera si avvicina, e l’ora della cena, non le resta
che
rannicchiarsi sul divano ad ascoltare il Valse Triste di Sibelius
che la
convince che la vita è come una danza
in cui
anche il primo ballerino ha il volto depresso di un pierrot,
che
smesso il vestito a palle bianche e nere si agita sullo scena
come un
feto nudo che non ha voglia
di conoscere il mondo che non vuole
conoscerlo.
22. Nella terra
di Lucilio
Se fosse
vivo, ne
avrebbe da scrivere Lucilio sulla gente
che
frequenta il
suo paese. Se ne fregherebbe che Orazio gli ha consigliato
di
censurare il
vizio e non l’uomo, o la donna, che ne gode.
Metterebbe
insieme
versi in cui un critico fra mille anni,
fornito
di cultura
e filologico acume, ricorderebbe al lettore
che da
sempre è un
passatempo della specie fare dei vizi privati
pubbliche
virtù.
Direbbe, forse, che la Signora ha mancato di gusto,
e di
stile, a
ritirarsi con Mondialcasa a riflettere sul destino dell’anima
in
luoghi che poco
si addicono a chi, nata da umile stirpe,
ha
meritato, grazie
a fatica, abnegazione e sottomissione, di godere
di quei
panorami di
cui furono esperti Tiberio, Lenin e Malaparte
e non
dovrebbe
accontentarsi della campagne
dove il
sole che
brucia alimenta passioni sconce che poco si addicono
a chi,
come
Ermengarda in convento, cerca di dimenticare
che in
ogni donna
c’è Gertrude, e qualcos’altro.
Ma alla
Signora
poco importa di Lucilio, e Orazio, e Ermengarda, e Gertrude.
Poco
importa se un
poeta scrive di lei cose che lei può sempre smentire,
perché
i poeti si
sa sono mentitori incalliti e ne sanno una più del diavolo,
e delle
donne. Del
resto, Mondialcasa è lì per questo, per testimoniare,
a chi
dubita, che
Lucilio le cose se le inventa, viola la privacy,
è
uno che ama il
gossip a buon prezzo. E Mondialcasa è brava in questo.
Ci ha
costruito una
carriera su: humile servire et humiliter pulverem abtergere.
Dirà
che Lucilio è
un cafone del sud, che loro sono andate lì per pregare Iddio
che il
dì futuro
sia men tetro del dì presente e confermi loro
Un posto
in prima
fila nel talk show dei campi elisi.
Le
crederanno.
Tutti. Anche l’uomo del nord che se n’è tornato al Nord.
Anche
padre
Malaluce che è del sud e nell’ora di religione di Bertolucci
con ci
fa certo una
bella figura. Perché è così a Casalpurga.
Tutti
credono a
tutti. Ed è così bello avere una fede
che ti
consente di
andare nella terra di Lucilio
convinti
che
Lucilio abbia perso con morte non solo la vita,
ma anche
la parola.
(continua)
Cristo!,
che Cristo al miocardio!
di
Antonino
Contiliano
Con
Eraclito,
ma anche con Musil della “Cacania” o altri…, due parole e qualche
riflessione
su “Cuore di Cristo” di Luther Blissett.
Questo
racconto su Casalpurga e i suoi personaggi “grotteschi” e
ridicolizzati,
sferzati per i loro vizi, i loro tic e la loro ignoranza, è un
vero
serraglio che vede crescere il fior fiore del semenzaio stupidario
“personificato”
dai vari s-docenti sdicenti. Tutt’altro che autobiografica –
consistenti
e sintomatici i riferimenti culturali e storico-contestuali
(passato/presente)
extra-bios – la narrazione è una microstoria che,
emblematicamente,
può benissimo saltare i ristretti confini di Casalpurga
(rabelesiana)
e l’esperienza diretta del narratore, Luther Blissett. Il tracciato,
colto
il modello storico-ideologico che non manca, può benissimo
estendersi
a tutti quei luoghi ( e non sono rari, né unici) che non
praticano
neanche la “trasgressione del pensiero per accertarsi del piacere della
sua esistenza” o del “pompino” che una donna ti regala come atto
d’amore
fondendosi con il tuo caz…; che i “giganti non hanno bisogno dei nani
sulle
spalle” né di comitati “di salute pubblica” alla Lucien de
Rubempré
(di stampo Opus Dei) che vigila “perché i vizi privati non
rimangano
solo privati ma siano pubbliche virtù” ...
IRONIA
e sarcasmo – attenuati dal comico del quotidiano e dai doppi e tripli
sensi,
ma non per questo meno dirompenti –, sferzanti e “formativi” per
personaggi
che agiscono per cliché e adombrano formule manualistiche per
cultura,
sono il vero ordito di questo racconto, mentre lo stesso dice che i
raccontati
avrebbero bisogno di battezzarsi alle fonti del “Silenzio di Cage” e
dell’immaginario
critico e vissuto; e ciò almeno una volta, e prima di morire,
specie
se “uomo di mondo” come padre Corvino sperimenta per sé quello
che
poi impedisce agli altri.
Non
manca
l’autoironia, se Luther Blissett, congedandosi dagli auguri,
all’insegna
di una parodia dantesca, si schizza
[…]
ed
è
eccellente l'om che sè presume
d'aver
le ali al volo e alla mignatta
ma
matta
sei tu anche amore mio
che
di
fellatio ed altro che non dico
riempi
le mie notti e la mia mente
che
nullo
altro sente e ad altro tende
al
punto
dove il tutto coincide
la
possa
la fantàsia ed anche il velle
che
come
sempre è question di pelle
[…]
ma
Luther
mo' saluta e corre a nanna
auguri
a Casalpurga e a zia Giovanna
auguri
agli amici ed ai nemici
ma
quando
mai sarete un po’ felici?
Marsala,
15
marzo ‘05